Card. José Tolentino de Mendonça
Internazionale

La scelta della speranza, oggi più che mai, è decisiva

Fragilità, audacia profetica, santità: sono queste le parole chiave della riflessione che propone il cardinale portoghese José Tolentino de Mendonça, teologo, poeta, dal 2018 archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa. Nato nel 1965 a Funchal (isola di Madeira), è stato vicerettore e docente dell’Università Cattolica di Lisbona. Fra le sue recenti pubblicazioni si ricorda Il potere della speranza e Una grammatica semplice dell’umano (Vita e Pensiero).

Lei ha affermato che questo sventurato tempo di pandemia rappresenta anche un’occasione per reimparare tante cose. Quali? Mentre è cominciata la guerra in Ucraina, viene fatto di domandarsi: ma la famiglia umana le sta davvero reimparando?

Anzitutto c’è da dire che la devastante pandemia e adesso questa guerra terribile decostruiscono il mito della sicurezza, della potenza e del progresso che hanno caratterizzato il conscio e l’inconscio delle nostre società, per lo meno in Occidente. Di colpo ci riscopriamo molto più fragili e impotenti di quanto non pensassimo. E fare i conti con la propria fragilità non è facile: da un lato ci obbliga a una revisione critica delle false certezze su cui ci fondavamo. Dall’altro, ci convoca all’audacia profetica di intraprendere cammini nuovi. Questo, che ci appare come un tempo di chiusura spaventosa, è al contrario il tempo dell’audacia profetica.

Penso, ad esempio, ai messaggi su cui insiste papa Francesco: dobbiamo capire meglio cosa significa «nessuno si salva da solo» e «siamo tutti fratelli». Se questa stagione così dura non ci porta a un ripensamento, avremo mancato l’incontro con la storia. Anche perché – non illudiamoci – se non riqualificheremo eticamente le nostre relazioni con il mondo e con il nostro simile sprofonderemo sempre più dando ragione al pessimismo più pesante. Occorre scegliere la strada della speranza.

Quale stagione sta attualmente attraversando il cattolicesimo?

Anche il cattolicesimo è chiamato a prendere coscienza della propria fragilità. Noi credevamo di stare in una fortezza protetta dal male, esente dalle colpe che attribuivamo solo al mondo, e adesso dolorosamente vediamo che non è così. Dobbiamo guardare profeticamente dentro di noi, vedere le nostre fragilità, con quello sguardo critico, deciso e pieno di speranza che troviamo nel Vangelo. In questo senso, siamo posti davanti alla sfida di una riqualificazione spirituale – nella linea indicata dallo stile di Gesù – di tanti nostri modi di agire e delle nostre forme di organizzazione. Francesco non ha paura di usare la parola crisi. Per il cattolicesimo questa è realmente un’ora di crisi, ma anche di tanti segni emergenti che sono premonitori della primavera.

Nell’Occidente dominato dal diktat dell’efficienza e dell’ottimizzazione delle risorse si corre il rischio di vivere un’esistenza in cui si fanno molte cose, anche buone e necessarie, ma in cui si smarrisce la capacità di stupirsi e di contemplare. Come evitare di perdere questa indispensabile capacità?

Noi ci definiamo Homo faber: l’artigiano, l’artefice, l’uomo che si realizza nell’azione. E dimentichiamo che l’azione è incompleta se si esaurisce in mero attivismo, in puro fare. La cosa peggiore che può accadere è investire in una vita altamente produttiva ma che ha perduto la capacità di stupirsi, la possibilità di deliziarsi. Lo stupore sorge in noi quando non interrompiamo la vita, quando prendiamo uno dei suoi fili, quale che esso sia, e lo sappiamo condurre creativamente al suo culmine. Beati quelli che passano per la vita disponibili ed estasiati: hanno afferrato la natura del miracolo nel quale siamo inscritti. È forse necessario reimparare quello che il poeta Fernando Pessoa scrisse: «La meravigliosa realtà delle cose / è la mia scoperta di tutti i giorni».

La nostra vita – lei scrive – è «un paesaggio in cui Dio si vede». Come si impara a vedere?

Ben sappiamo che per vedere non basta avere occhi. Ce lo ricorda la stessa Sacra Scrittura quando parla di coloro che «hanno occhi ma non vedono ». Ci troviamo tante volte in questa situazione. Serve una pedagogia del vedere. Gli evangelisti descrivono Gesù che si presenta anche come un terapeuta, uno che guarisce. Ora, una delle «specializzazioni» che Gesù più esercitò come terapeuta è l’oftalmologia. Infatti guarì molti ciechi e offrì ai discepoli diversi insegnamenti sugli occhi. In fondo, Gesù è il maestro dell’arte di vedere: è colui che ricrea e amplifica la nostra visione, facendoci passare dai nostri orizzonti ristretti all’orizzonte di Dio. Non dimentichiamo che l’esperienza cristiana si esprime in una nuova visione della vita.

Molti pensano alla santità come cosa straordinaria, irraggiungibile. Ma nella tradizione cristiana essa è altro.

Come il peccato è la banalità del male, così la santità si manifesta quando il bene diventa cosa normale, ordinaria, abituale. La santità è la banalità del bene. Considerarla in questo modo richiede un cambiamento di mentalità che dobbiamo ancora mettere in atto. Benché la Lumen gentium (Concilio Vaticano II) parli della santità come di una vocazione estesa a tutti, una vocazione universale, noi la riteniamo ancora un cammino di vita privilegiato, la condizione di donne e uomini straordinari. Papa Francesco si è molto impegnato in questa trasformazione di mentalità, come si può capire, ad esempio, dalla bella espressione che ama utilizzare: il santo della porta accanto. Dobbiamo essere gli uni per gli altri il santo della porta accanto.

di Cristina Uguccioni

Card. José Tolentino de Mendonça | © wikipedia
30 Marzo 2022 | 11:28
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