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Eucaristia: «la parentesi si chiuda presto»

di Enrico Morresi*

Una conseguenza inattesa (in un contesto crudele, se si riflette al tributo di sangue e di sofferenze) la pandemia di coronavirus l’ha provocata, inducendo i cattolici a interrogarsi sul senso della partecipazione alla Messa domenicale, che da oltre due mesi non si è potuta più celebrare con l’abituale concorso di popolo. A destra e a sinistra della posizione di lealtà civile assunta dai vescovi svizzeri (e molto bene interpretata e approfondita dal vescovo di Lugano, Valerio Lazzeri) si è aperto un confronto che esige di essere ricentrato su valori sicuri. È quanto mi propongo di fare partendo dalla mia esperienza di ex segretario generale di «Universa Laus», l’associazione internazionale per lo studio del canto e della musica nella liturgia, fondata a Lugano nel 1966 da Joseph Gelineau e da Luigi Agustoni, e di modesto operatore della riforma postconciliare nella liturgia e nel canto, prima nella mia parrocchia e poi nella cattedrale di San Lorenzo.

A fare da guida al comportamento dei credenti è il Vangelo. Nel momento più alto e solenne della testimonianza di Gesù: l’Ultima Cena, i comandi che egli dà ai suoi discepoli sono due, quello di lavarsi i piedi l’un l’altro e quello di spezzare il pane «in memoria di me»[1]. Nel primo si riconosce la «diakonia», cioè il servizio al prossimo sul quale saremo giudicati secondo Matteo 25, 31-46; nel secondo la «koinonia», cioè l’identità profonda della Chiesa testimone del Risorto. La dedizione del personale medico e sanitario mobilitato dalla pandemia è un bell’esempio di «diakonia». E la «koinonia»? Deve venire dopo, secondo alcuni: per esempio Jacques Gaillot, il caro vescovo di Evreux esonerato nel 1995: «Oggi con la pandemia tante persone sono disoccupate, tante famiglie non possono più pagare l’affitto, tante persone e i loro figli conoscono la fame, tante persone conoscono la malattia e la solitudine. Il bel rischio della Chiesa è quello di stare al loro fianco. Senza esitare. Senza aspettare. La Chiesa non è mai se stessa senza i poveri. L’importante non è: ripartire come prima, è andare verso i feriti della vita. Prima l’umano». Al polo opposto la constatazione riportata dal rettore della Facoltà di teologia di Lugano nell’articolo pubblicato da «Catholica» e nel sito catt.ch sabato 2 maggio[1], secondo la quale a molti fedeli non pare molto importante che debbano assistere alla Messa solo in televisione, perché -secondo questi fedeli- «la santa messa è un sacramento con un valore oggettivo che non dipende dall’assemblea». Davvero? No. Neppure il papa celebra da solo la sua messa «privata» in Santa Marta! E la messa in televisione, persino replicabile a volontà perché registrata, è quanto di più lontano dall’eucarestia come evento. Che la celebrino «privatamente» i preti non è un segno necessariamente positivo: mette in ombra, infatti, il recupero di autenticità affermato dal Concilio. Storicamente, il Vaticano II (1962-1965) stabilì un’inversione di tendenza rispetto al Concilio di Trento (1545-1563), che a tal punto aveva accentrato la realtà della Chiesa nel corpo clericale da provocare una vera e propria «fuga» dei fedeli nelle devozioni particolari. Con tutti i difetti che l’applicazione della riforma ha tratto con sé (la prossima pubblicazione del nuovo Messale Romano in italiano dovrebbe favorirne l’esame spassionato), ritornare all’antico non è possibile senza sacrificare l’acquisito più importante: la partecipazione dei semplici battezzati alla celebrazione nel modo e secondo i ruoli specifici. Il latino non c’entra. Anche nei messali successivi al Tridentino le preghiere usavano il «noi», tempo verbale che esprime una partecipazione di molti. Ma poteva venir scambiata per una forma di cortesia: anche i re e i papi si esprimevano in prima persona plurale. Il Concilio ha rimesso al posto giusto i ruoli nella celebrazione, come avevano sempre detto i padri della Chiesa, per esempio San Giovanni Crisostomo[2]. Non era, come si vede, una mera revisione di vocabolario.

Di un altro equivoco si è parato il discorso in atto sul… digiuno eucaristico.  Si dice: sospesa la Messa partecipata, c’è pur sempre la Sacra Scrittura, no? Incoraggiamo la lettura e la preghiera con il Primo e il Secondo Testamento e sarà tanto di guadagnato per la Chiesa stessa! Ovviamente d’accordo!  Ma ancora una volta ha da essere tenuto presente il dato storico. Il Concilio di Trento precludeva di fatto la Bibbia ai cattolici (soprattutto impedendo le traduzioni dal latino) e il Vaticano II ha rovesciato le carte in tavola anche su questo punto. Questo, però, appena ottant’anni fa: ed è ben noto che le pratiche religiose penetrano nelle radici e mutare direzione ai fattori identitari è impresa di secoli. Perciò neppure che basti la Scrittura a rimpiazzare l’Eucarestia-non-partecipata mi convince. Ricordiamo con emozione come la Scrittura imbevesse la vita delle comunità protestanti ritratta nei film di Karl T. Dreyer o di Ingmar Bergman – ma non pensiamo che basti un Concilio a cambiare abitudini secolari.

Né la televisione, dunque, né il Rosario, né le consacrazioni al Cuore Immacolato di Maria – sia detto con tutto rispetto! – sostituiscono la partecipazione attiva alla memoria di Cristo significata dall’Eucarestia. Niente scorciatoie, perciò, e niente ritorni all’indietro: solo un desiderio, che la parentesi si richiuda presto.

*giornalista (Lugano)


[1] Senza togliere valore, naturalmente, alla preghiera personale (Mt 6, 6)

[2] «Ci sono momenti in cui non vi è alcuna differenza tra il sacerdote e chi fa parte del popolo, come quando bisogna partecipare ai tremendi misteri: tutti vi siamo ammessi allo stesso titolo. Non è come nell’antica alleanza, quando alcune cose le mangiava il sacerdote, altre chi lo non lo era, e al popolo non era permesso di prendere parte a ciò che era riservato al sacerdote. Ora però non è così, ma a tutti viene offerto un solo corpo e un solo calice (…). Negli stessi tremendi misteri, il sacerdote prega per il popolo, ma anche il popolo prega per il sacerdote. Le parole ›E con il tuo spirito!’ non significano altro che questo. Perfino la preghiera eucaristica è comune, perché non è il sacerdote a rendere grazie da solo, ma lo fa l’intero popolo. Dopo che il sacerdote, infatti, ha preso la parola per primo, il popolo esprime il suo assenso dicendo che è cosa buona e giusta, e solo allora egli comincia a rendere grazie. Del resto, perché meravigliarsi che il popolo dialoga con il sacerdote, quando si unisce addirittura agli stessi cherubini e alle potenze celesti per elevare con loro quei sacri inni? Vi dico queste cose affinché ciascuno, anche dei semplici fedeli, resti vigilante, perché comprendiamo che siamo tutti un solo corpo e che non c’è tra noi altra differenza che quella tra un membro e un altro membro, e perché non rimettiamo tutto alla cura dei sacerdoti, ma anche noi ci preoccupiamo di tutta la Chiesa, come di un corpo comune» (San Giovanni Crisostomo , Omelia sulla Seconda lettera ai Corinti 18,3, PG 61,527).

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14 Maggio 2020 | 05:30
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