Mons. Bonnemain, vescovo di Coira
Svizzera

Coira, intervista al nuovo vescovo Bonnemain: «La diocesi è malata e ha bisogno di cure»

Raphael Rauch / adattamento Maurice Page cath.fr / Red catt.ch

Il nuovo vescovo della diocesi di Coira, monsignor Joseph Bonnemain, è stato ordinato lo scorso venerdì 19 marzo. Nell’intervista a Raphael Rauch di kath.ch ha espresso le prime riflessioni sul ministero a cui è stato chiamato.

Vescovo Bonnemain, lei ha scelto come motto episcopale una citazione di Giovanni Paolo II: «Homo est via Ecclesiae». Perché?

La traduzione è: «La strada della Chiesa è l’uomo». Per me vuol dire che le persone non sono a disposizione della Chiesa, ma è la Chiesa ad essere al servizio delle persone. Le parole del Papa sono dunque un invito a ›decentrarci’, ad andare verso la periferia. La diocesi di Coira è malata e ha bisogno di cure. Siamo preoccupati per noi stessi, per le nostre strutture, per le nostre tensioni e per i nostri conflitti. Perdiamo molto tempo, e così perdiamo anche l’opportunità di essere a fianco delle persone e dire loro quanto Dio le ama.

Prima dell’ordinazione episcopale, lei è stato in ritiro spirituale presso il monastero di Cazis (GR)...

Sono stato ospite delle suore per due giorni. Ho partecipato alla Liturgia delle Ore e ho meditato. Ma ho dovuto lavorare molto. Ogni dieci minuti c’era una telefonata, un’e-mail o un SMS.

Comincia questo servizio episcopale con spirito di umiltà?

Cosa significa umiltà? Ho rispetto per questo compito, un enorme rispetto, in effetti. E ne sento il peso. Mi viene affidato un compito molto più grande di quanto le mie forze mi permettano. Ho bisogno dell’aiuto di tutti e dell’aiuto di Dio.

Lei è medico: perché non ha proseguito quella carriera, ma ha scelto di studiare teologia?

Ero felice di lavorare come medico a Zurigo. In questa professione ho cercato di avvicinarmi a Dio e alle persone. Ma il fondatore dell’Opus Dei, Josemaría Escrivá, mi ha chiesto: «Ti piacerebbe l’idea di andare a Roma per studiare teologia?». Non si è trattato di un’illuminazione, né di una chiamata, ma di una semplice riflessione: se posso aiutare in questo modo, perché no?

L’ordinazione sacerdotale, a quel punto, era logicamente il passo successivo.

Alla fine dei miei studi teologici, mi è stato chiesto: «Ti piacerebbe l’idea di diventare prete?». E di nuovo, ho detto: «Perché no, se posso essere d’aiuto?». E ora mi è stato chiesto di diventare vescovo. È un incarico che non ho cercato. Ma se posso fare qualcosa come vescovo, perché no?

Lei è membro dell’Opus Dei, una prelatura la cui reputazione viene spesso messa in discussione.

Voglio chiarire che, dopo la mia consacrazione come vescovo, sarò legato alla diocesi di Coira fino alla fine della mia vita – e non più all’Opus Dei. La prelatura personale era la mia famiglia. La diocesi ora è la mia nuova famiglia. È vero, l’Opus Dei ha commesso errori e leggerezze, come anche altre realtà della Chiesa. All’inizio c’è molto entusiasmo, si è convinti dei propri ideali e si ha il desiderio che molti li condividano. E poi si cresce, e alcuni dimenticano quegli ideali. Ma non ho dubbi: l’Opus Dei ha imparato dagli errori del passato.

È stato ordinato vescovo nel giorno di San Giuseppe, che è anche il suo onomastico. Che cosa la lega alla figura del padre di Gesù?

Mi impressiona pensare a tutto ciò che quest’uomo ha passato. Aveva un figlio ›speciale’, è dovuto fuggire in Egitto come rifugiato e ha avuto un lavoro difficile come falegname. Giuseppe rappresenta molte situazioni. Penso preoccupato soprattutto alle persone e alle loro angosce. In questo momento la gente sta soffrendo a causa della pandemia. Ci sono disoccupati, persone che hanno paura che la propria attività o azienda fallisca. Ci sono famiglie che sono sopraffatte. Come Chiesa e come Vescovi, dobbiamo riflettere: come possiamo aiutare queste persone? Come possiamo ispirare loro fiducia?

All’inizio le sue posizioni erano ritenute piuttosto conservatrici. Che tipo di evoluzione pastorale ha vissuto?

Quando ero cappellano in ospedale, incontrai un italiano di 50 anni. Aveva un cancro in fase terminale, era chiaro che sarebbe morto. Andai a trovarlo per dargli i sacramenti, ma mi rimandò alla settimana successiva. Mi ripresentai, e di nuovo la stessa scena. Mi stavo innervosendo perché non gli avevo ancora amministrato i sacramenti. Allora, lui mi disse: «Lei mi fa paura. È giovane, magro, atletico, ha due dottorati. Io ho bisogno di un frate cappuccino vecchio, grasso e gentile». Pensai tra me e me: «Questo è lo Spirito Santo che parla». Ho capito che dovevo cambiare.

Da 40 anni fa parte degli organismi direttivi della diocesi di Coira. Non è anche lei, in parte responsabile delle situazioni difficili che in passato coinvolsero i vescovi Wolfgang Haas e Vitus Huonder?

Mi sono spesso chiesto se dovessi andarmene o rimanere. Sono sempre rimasto perché ero convinto di poter fare del bene. Dobbiamo prendere sul serio le circostanze e il destino delle persone. Papa Francesco dice: «Dobbiamo stare come in un combattimento corpo a corpo». Non basta recitare dall’alto del balcone gli insegnamenti della Chiesa e il catechismo, ma bisogna capire e condividere le preoccupazioni della gente.

Rispetto al suo servizio, alcuni vorrebbero un costruttore di ponti; altri invece si aspettano quasi un ›bulldozer’ che faccia piazza pulita. Qual è il suo programma per i primi 100 giorni?

Il mio primo obiettivo è osservare: cosa possiamo fare di buono noi vescovi per le persone in difficoltà? E poi, come posso costruire una squadra che condivida questa visione? Avrò delle conversazioni, chiederò consigli su come creare questa squadra. Questi saranno i miei primi passi. La nostra Chiesa deve diventare più modesta, più umile, più onesta, più trasparente.

La diocesi di Coira ha bisogno di un vescovo ausiliare?

Non ho ancora preso la mia decisione. È bene avere dei vescovi ausiliari, ad esempio per le Cresime. Inoltre abbiamo bisogno di nuove persone nella Conferenza episcopale svizzera (Cvs), perché i compiti all’interno della Cvs sono molti e vari e ci sono una miriade di dipartimenti. Con le dimissioni dei vescovi ausiliari Denis Theurillat e Marian Eleganti siamo rimasti piccolo gruppo. Non ci sono forze sufficienti per seguire tutte le attività.

Diversi vescovi si sono lamentati per la decisione della Congregazione per la dottrina della fede che vieta la benedizione delle coppie omosessuali. Protesterà anche lei?

No. Ma cercherò, come in altri ambiti, di distinguere tra le direttive e le persone concrete che ho di fronte. Posso persino rallegrarmi del fatto che la Congregazione per la Dottrina della Fede ci dia direttive, di tanto in tanto. Ma le persone sono uniche. Una persona non è determinata solo dal proprio orientamento sessuale, ma costituisce una ricchezza e risorsa per le sue molte sfumature e caratteristiche, abilità e qualità. Dobbiamo guardare l’intera persona, la sua situazione e la sua storia. E poi decidere con le norme da una parte e la persona o la coppia concreta dall’altra.

Se gli operatori pastorali della diocesi benedissero le coppie omosessuali, cosa accadrebbe?

Parlerei con loro e chiederei se hanno soppesato bene la loro decisione.

Perché non lasciarglielo fare?

Prendere le persone sul serio significa lasciar fare? Se stiamo cercando di portare avanti la diocesi insieme, è bene parlare tra noi.

Li rimprovererebbe?

Non si ottiene nulla rimproverando, né si ottiene nulla semplicemente vietando o dicendo alle persone quello che devono fare. Per me si tratta di motivare, integrare, supportare. Papa Francesco dice di ›discernere’. È il nostro miglior insegnante.

Alcuni sacerdoti della diocesi temono che il loro ministero pastorale non venga rinnovato...

Nessuno dovrebbe aver paura di me. Abbiamo a che fare con un Dio che ci ama, che ci apprezza, che vuole vederci felici, che ha preparato per noi una casa eterna e felice. Se vogliamo proclamare questo messaggio, dov’è la paura?

Mons. Bonnemain, vescovo di Coira | © kath.ch
22 Marzo 2021 | 12:53
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