Umiltà e superbia in Caravaggio. Conferenza del prof. Zuffi per i 400 anni della Confraternita di S. Carlo a Lugano

«Il buon pittore ama dipingere due cose: l’uomo e il concetto della mente sua» (Leonardo Da Vinci)

Seconda conferenza dedicata al S. Francesco in meditazione di Michelangelo Merisi (meglio conosciuto come Caravaggio), esposto in questi giorni presso la chiesa di S. Carlo a Lugano. Un’iniziativa, quella di portare il famoso dipinto alle nostre latitudini, voluta dalla Confraternita di S. Carlo Borromeo, che quest’anno festeggia i suoi 400 anni.

Ieri sera, a spiegare i segreti del quadro ai presenti, è intervenuto lo storico dell’arte e professore Stefano Zuffi. «Ciò che colpisce delle opere caravaggesche è la loro capacità comunicativa, la loro immediatezza. Dalla sua formazione ambrosiana e borromaica, Caravaggio impara che la cosa migliore è dipingere il naturale, senza artificio. Caravaggio aveva un’incrollabile fiducia verso il mondo e credeva nella possibilità di dipingerlo così com’è, senza abbellimenti».

«Secondo le indicazioni dei trattati di pittura del tempo, l’arte avrebbe dovuto «delectare» (cioè divertire), «docere» (insegnare qualcosa) e «movere» (commuovere l’animo e quindi spingere all’azione). La strada scelta da Caravaggio per rispondere a queste esigenze è inusuale e suscita una fortissima riprovazione da parte degli accademici. Questi sostenevano che il pittore deve immaginare, creare ex novo; non deve riprodurre le cose così come sono, ma deve tendere ad un ideale. Rispetto a questa tradizione, Caravaggio è un innovatore».

Ma la cosa più interessante è che le opere di Caravaggio parlano della sua stessa vita: «Pensiamo al dipinto che ritrae Davide dopo la vittoria su Golia», prosegue Zuffi. «Se guardiamo bene, noteremo delle cose molto curiose: Davide, da parte sua, ha un’aria quasi di compassione e di partecipazione al dolore di Golia, sembra comprendere; Golia, invece, è quasi stupito dal gesto di Davide. Non sono le reazioni normali che ci si aspetterebbe. E forse la spiegazione sta nelle vicende biografiche del Caravaggio, che verrà condannato alla decapitazione per il suo comportamento».

I fatti si svolsero a Campo Marzio, la sera del 28 maggio 1606: a causa di una discussione causata da un fallo nel gioco della pallacorda (una sorta di tennis) il pittore fu ferito e, a sua volta, ferì mortalmente il rivale, tal Ranuccio Tommasoni da Terni, con il quale aveva avuto già in precedenza discussioni spesso sfociate in risse.
La decapitazione cui Caravaggio venne condannato in seguito, avrebbe potuto essere eseguita, recitava la sentenza, «da chiunque lo avrebbe incontrato per strada». Caravaggio, dunque, era in perenne pericolo.

Il quadro di Davide e Golia, dunque, nei due personaggi, rispecchierebbe quanto vissuto dal pittore: Davide è stupito del suo gesto, forse pentito, come il Caravaggio nella vita reale e Golia, dal canto suo, mai si sarebbe aspettato un gesto così violento perpetrato dal suo rivale. «Ma c’è un dettaglio – dice Zuffi – che è ancora più rivelatore: se guardate bene, sulla spada di Golia troviamo incise tre lettere H. O. S. La critica ha trovato un’interpretazione credibile a questa sigla: Humilitas occidit Superbia, l’umiltà uccide la superbia. E questo non deve stupire: era il motto di S. Carlo, che Caravaggio aveva sicuramente sentito ripetere molte volte nel suo periodo milanese».

«Tuttavia, non è solo di S. Carlo il motto; esso ci rimanda anche alla spiritualità francescana. E di francescano c’è molto nelle opere di Caravaggio. Pensiamo, nuovamente, alla naturalezza delle sue opere, a quella totale sintonia con il mondo, che glielo fa dipingere senza artifici, ma anzi immergendosi totalmente nella realtà. Un’immersione che lo portava anche a credere che al dipinto lo spettatore in qualche modo deve aderire. E per rendere più coinvolgenti le sue opere, faceva in modo che esse non andassero soltanto guardate per essere capite, ma anche «lette». Inseriva, ad esempio, degli spartiti musicali che riprendevano i madrigali del tempo. Per catturare la nostra attenzione e darci un’emozione globale, faceva sì che il quadro venisse verso lo spettatore, lo invitasse non solo a guardarlo, ma ad essere un testimone partecipe di ciò che raffigurava».

Per approfondire: Stefano Zuffi, Nel segno di Caravaggio, Skira Editore. 2018.

 

Chiesa cattolica svizzera

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