Quaresima. Intervista all’abate ticinese padre Mauro Giuseppe Lepori

di Cristina Uguccioni

È cominciata un’altra Quaresima: sul senso di questo tempo che conduce alla Pasqua dialoga con Catholica e catt.ch padre Mauro Giuseppe Lepori, ticinese, abate generale dell’Ordine Cistercense.

Cosa rappresenta la Quaresima nella vita di fede?

«La morte e la risurrezione di Gesù sono il nucleo della fede e della vita cristiana. La Quaresima è nata nella Chiesa per prepararci a vivere la Pasqua: a viverla non come commemorazione di un fatto che appartiene al passato ma come avvenimento sempre attuale. Come scrive san Paolo ai Tessalonicesi, Cristo «è morto per noi perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui» (1Ts 5,10). Con la Sua morte e risurrezione Gesù ci offre tutto se stesso, il Suo corpo e il Suo sangue, ci dona la salvezza, la vita eterna. Questo è un avvenimento che accade anche oggi per te, per me, per tutti. Quello di Cristo è un dono, non un’imposizione: è il dono più grande che riceviamo dal Signore. Per accoglierlo bisogna aprire il nostro cuore. La Quaresima è il tempo durante il quale ci disponiamo a lasciar entrare la Pasqua nella nostra vita e ci liberiamo da ciò che chiude il nostro cuore alla redenzione. Nessuno è mai completamente aperto al dono di Dio: il peccato ci rende sempre diffidenti nei confronti del Suo amore, come lo furono Adamo ed Eva. La nostra libertà va aiutata a dire «sì» al dono pasquale. E ciò, per noi esseri umani, non avviene in un istante: è un processo, un cammino».

Durante la Quaresima, la Chiesa propone tre pratiche penitenziali molto care alla tradizione biblica: la preghiera, l’elemosina, il digiuno. Qual è il modo autentico di viverle perché non siano pratiche formali?

«Queste pratiche non sono formali se le viviamo come un aiuto a liberarci dalla chiusura in noi stessi. Avremmo bisogno di aprirci all’immensità dell’amore di Dio e invece noi tendiamo a evitare il rapporto filiale con Lui, a ripiegarci sul nostro io, su quello che ci sazia senza essere vero nutrimento, sull’accumulo di false ricchezze che non danno vere sicurezze. Il digiuno, l’elemosina e la preghiera ci sono chieste e donate per aprire tutte le dimensioni della nostra vita alla felicità pasquale, alla vita eterna donata dal Signore, per convertirci dall’egoismo e dall’egocentrismo all’amore di Dio, all’amore del prossimo e del creato. Così facendo ciascuno di noi scopre il segreto della vita: solo amando sono veramente, e felicemente, me stesso. Se mi ripiego sul mio io, quasi a voler trattenere ciò che credo di possedere, finisco col perdermi e non essere me stesso. Che la tradizione cristiana ci proponga tre pratiche che aiutano in questo la nostra libertà è cosa di cui essere grati. Io comincio sempre la Quaresima con un moto di gratitudine: mi viene ancora dato un tempo per cominciare nuovamente a ritrovare me stesso volgendomi al Signore».

Quali forme possono assumere queste pratiche nella vita quotidiana?

«Ciascuno deve cercare di comprendere quali atteggiamenti o abitudini lo chiudono al rapporto con Dio. Il digiuno – che ci apre ad attendere e scoprire ciò che sazia il nostro cuore – può essere non solo astinenza dal cibo, ma anche, ad esempio, astinenza da un uso bulimico del cellulare e dei social che ostacola il silenzio e l’ascolto di Dio e degli altri. Allo stesso modo l’elemosina, che esprime il nostro amore per gli altri: è bene sostenere economicamente qualche opera oppure avere particolare cura delle opere che magari già aiutiamo durante l’anno perché questo ci fa comprendere che ciò che possediamo non è solo per noi ma deve sempre anche misurarsi sul bisogno degli altri. Se però l’elemosina si riduce a dare frettolosamente un po’ del superfluo, non ci coinvolge. Coinvolge di più la nostra persona, ad esempio, il dono del nostro tempo, della nostra presenza, per fare compagnia, ascoltare, consolare, prestare servizio. E poi c’è la preghiera, il nostro dialogo con il Signore, da vivere nelle molte forme che la Chiesa propone: ad esempio la lectio divina, ossia la lettura orante della Scrittura». 

La Quaresima è cammino di conversione. Cosa vorrebbe dire alle persone che si sentono un po’scoraggiate perché, terminata ogni Quaresima, hanno l’impressione di non aver fatto veri passi avanti, di non essere cambiate come avrebbero desiderato?

«È un’impressione che proviamo tutti. Anch’io comincio sempre ogni Quaresima con più entusiasmo di quello che ho quando la finisco. Al termine di ogni Quaresima mi dico che avrei potuto viverla meglio. La tentazione di scoraggiarsi sorge perché, in fondo, si inizia il percorso pensando che il cammino sia opera nostra e che la meta sia opera nostra.   Ma la meta della Quaresima è la grazia delle grazie: Cristo che ci salva morendo e risorgendo per noi. La conversione all’amore del Signore è un cammino, non sempre lineare, che ci accompagna tutta la vita: non finiremo mai di progredire perché l’amore di Dio è una realtà inesauribile, un abisso di cui non finiremo mai discandagliare le profondità. La vita spirituale è come un pellegrinaggio: ogni mattina si ricomincia a camminare. In un certo senso siamo sempre all’inizio. Dio ci chiede solo l’inizio: la conversione è Sua grazia. Lui ci domanda di desiderarla, di accennare un primo passo, di voler corrispondere al Suo dono, come diceva Santa Teresa di Lisieux. A sollevarci sino a Dio sono le Sue braccia. Un padre del deserto anziano e santo cui era stato chiesto come facesse a progredire così speditamente nella vita spirituale, rispose: ogni mattina mi dico: oggi devo iniziare a convertirmi!».

Congedandosi dai suoi discepoli, Gesù ha detto: «vado a prepararvi un posto». Lei come immagina sarà questo posto e «la vita del mondo che verrà», la vita eterna nel mondo di Dio?

«La vita eterna, anzitutto, sarà una pienezza di vita. Contempleremo il volto di Dio. Questa contemplazione non la immagino tantocome un eterno fissarsi negli occhi o come un continuo guardare qualcuno, ma come il poter vivere un’amicizia piena di amore, dialogo, scambio, cose da fare insieme. Entreremo con tutto il nostro essere nella vita trinitaria e il nostro posto sarà quello di figli nel Figlio che amano il Padre con l’amore dello Spirito Santo. Sarà dunque una vita totalmente filiale e, al contempo, una vita di compiuta fraternità con tutta l’umanità e con i nostri cari, che ritroveremo. E questa fraternità avrà infiniti colori perché avrà la varietà di tutti i fratelli e le sorelle che abitano il Cielo, ciascuno dei quali, essendo immagine unica e irripetibile di Dio, avrà lapropria «fisionomia». Vivremo la vita di Dio, quella che Cristo, morendo per noi, ci dona di condividere con Lui. Ma questa vita eterna comincia già nel tempo della nostra esistenza qui sulla terra. Inizia quando, in Cristo, comincia il nostro rapporto filiale con Dio e il rapporto fraterno, dunque d’amore, con tutti coloro che la vita pone sul nostro cammino. Medito molto in questi tempi queste parole di Gesù: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9). Gesù ci chiede di «rimanere» nel Suo amore, ricevuto dal Padre, nella nostra vita quotidiana, compiendo la sua volontà, amandoci gli uni gli altri. Questo è l’inizio della vita eterna, perché essa sarà, appunto, un rimanere nel Suo amore che genera vita in abbondanza». 

E come immagina sarà il nostro essere?

«Poiché la vita è relazione, noi risorgeremo con tutto il nostro essere relazionale, ossia con tutte le relazioni buone che abbiamo costruito e che ci hanno identificato. Come Maria è eternamente madre di Gesù e Giovanni è eternamente il Suo discepolo amato, così noi saremo eternamente definiti dalla nostra vocazione e dalle nostre relazioni: saremo sempre figli dei nostri genitori, o padri e madri dei nostri figli, e amici dei nostri amici. Ma non saremo chiusi in questi rapporti perché saremo anche amici dei nostri nemici. I doni e i carismi che Dio ha dato a ciascuno in favore di tutti sono irrevocabili. Io penso che sarò eternamente membro del mio Ordine, della mia comunità, ma come membro della piena comunione di tutti i redenti. Tutto, misteriosamente, rimarrà nel Suo amore. Così come, misteriosamente, proprio il nostro corpo risorgerà trasfigurato.

Ricordo che quando mia mamma stava morendo, guardando il suo corpo spegnersi ho capito quanto abbiamo bisogno della risurrezione della carne che professiamo nel Credo. Ho capito che non riusciamo ad accontentarci di riabbracciare in Cielo soltanto l’anima dei nostri cari. Volevo poter riabbracciare mia mamma nell’interezza della sua persona, con quel corpo che mi aveva generato, accudito, accompagnato, che avevo visto invecchiare e sorridermi sino alla fine. Il dogma della risurrezione della carne, pur tanto misterioso per la ragione, è veramente corrispondente al bisogno del nostro cuore. Che Cristo sia risorto col Suo vero corpo, così fisicamente reale da poter mangiare pane e pesce dopo la risurrezione, fa parte dello splendore divino e umano – anzi, umanissimo – della Pasqua!».

Chiesa cattolica svizzera

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