Verso il sinodo dei vescovi sulla famiglia: dalla Bibbia alla vita di oggi (3)

 

di Ernesto Borghi

 I testi del Nuovo Testamento che cosa dicono sulle relazioni familiari e sociali che già non sia stato detto in quelli primo-testamentari? A questa domanda si possono dare varie risposte, sempre pensando che le radici giudaiche siano imprescindibili, anche per Gesù di Nazareth, e che un compimento profondo dei valori espressi, per esempio, da Genesi 1-2 e Esodo 20/Deuteronomio 5, si trovi nel Vangelo del Nazareno crocifisso e risorto. Vediamo, in proposito, la proposta che emerge da un brano di Matteo 5.

 

  1. Il testo

«[21] Udiste che era stato detto agli antichi: «Non uccidere; chiunque uccida sarà sottoposto a giudizio». [22] Anzi io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chiunque poi dica al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo stolto, sarà sottoposto al fuoco della Geenna. [23] Qualora dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, [24] lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima e riconciliati con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono. [25] Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario finché sei per strada con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tu venga gettato in prigione. [26] In verità ti dico: non uscirai di là finché tu non abbia pagato fino all’ultimo spicciolo!

[27] Udiste che era stato detto: «Non commettere adulterio». [28] Anzi io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore. [29] Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te: è meglio che venga meno uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geenna. [30] E se la tua mano destra ti è occasione di scandalo, tagliala e gettala via da te: è meglio che venga meno uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geenna.

[31] Fu pure detto: «Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto di ripudio». [32] Anzi io vi dico: chiunque ripudia sua moglie, eccetto il caso di impurità colpevole, la espone all’adulterio e chiunque sposi una ripudiata, commette adulterio.

[33] Udiste anche che era stato detto agli antichi: «Non spergiurare, ma adempi con il Signore i tuoi giuramenti». [34] Anzi io dico a voi di non giurare assolutamente: né per il cielo, perché è il trono di Dio; [35] né per la terra, perché è lo sgabello per i suoi piedi; né per Gerusalemme, perché è la città del gran re. [36] Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. [37] Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; quanto è più di questo viene dal maligno.

[38] Udiste che era stato detto: «Occhio per occhio e dente per dente». [39] Anzi io vi dico di non seguire assolutamente la logica del malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; [40] e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. [41] E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due. [42] Da’ a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle.

[43] Udiste che era stato detto: «Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico». [44] Anzi io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, [45] affinché diveniate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. [46] Infatti qualora amiate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? [47] E qualora rivolgiate il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? [48] Verrete ad essere dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste».

 

 

  1. Una lettura del testo

L’assassinio è un atto molto grave, rientra tra gli oggetti d’attenzione del Decalogo (cfr. Es 20,13) e, in quanto crimine così configurato, è soggetto ad un giudizio legale.

Gesù va oltre e più a fondo. Anzitutto l’ira è vista non come un’eventualità, ma come un dato di fatto. In presenza di questo accesso emotivo chiunque ne è soggetto e manifesta tale condizione in modo aggressivo nei confronti di un membro della propria comunità, può essere comunque condannabile secondo gli stessi termini di gravità (vv. 21-22). Il testo matteano pare proprio fondarsi su una persuasione assai diffusa nel giudaismo biblico e nel cristianesimo delle origini, secondo cui l’ira conduce facilmente all’omicidio[1].

Che si tratti di uno scatto d’ira o di un insulto o di una valutazione del tutto negativa, comunque chi se n’è reso responsabile è destinato ad una conseguenza che pare sproporzionata rispetto all’entità della colpa. Infatti parlare, successivamente e rispettivamente, di un giudizio intracomunitario, di un processo davanti al Sinedrio[2] e dell’esposizione al fuoco perenne della Geenna significa sottoporre il «reo» ad un destino assai gravoso.

Tuttavia questa valutazione di Gesù, con grande intensità retorica e in assenza di qualsiasi attenuazione, tiene a ribadire un fatto: il destino ultimo dell’essere umano dipende dal rispetto dell’umanità del proprio fratello.

E, con queste affermazioni, Gesù, comunque, non appare come un innovatore totale: basta leggere qualche testo della comunità di Qûmràn[3] o qualche fonte rabbinica[4] o apocrifa primo-testamentaria[5] per comprendere la comunanza di vedute anche nel giudaismo sino al I secolo d.C.

Il salto di qualità della posizione di Gesù consiste in una scelta etica precisa: evitare che gli altri si trovino ridotti alla proiezione e all’oggetto della collera del singolo e ricordare, in modo radicale, l’importanza dell’autocontrollo e della gentilezza verso di loro. È a partire dall’interiorità umana che vengono annientate la capacità o volontà di comunicazione del singolo di fronte alla società umana. E l’aggressione dell’altro nel proprio cuore annulla la comunicazione e, di qui, la vita: l’assassinio censurato non è in primo luogo l’azione concretamente fisica. Essa è l’emanazione dell’intimo dell’essere umano nel quale si trova il rifiuto, la negazione del proprio simile.

Questa presa di posizione è coerentemente seguita da un’affermazione di particolare portata antropologica, che ne è il primo logico sviluppo.

Infatti l’invito di Gesù a riconoscere l’altro come persona necessita che si consideri prioritaria la riconciliazione rispetto all’offerta cultuale: «se prima si parlava del (potenziale) offensore, che il triplice annuncio di castigo mira a sgomentare, ora si esige da lui la necessaria empatia per l’immedesimarsi nei panni del fratello offeso»[6].

La serenità relazionale con un membro della comunità non è alternativa agli atti di culto a Dio, ma deve sussistere come presupposto di base per rendere autentica l’attenzione rituale (vv. 23-24). Offrire un dono a Dio è un’espressione di amore nei suoi confronti. Presentare tale offerta senza riconciliare se stesso con il proprio fratello significa separare l’amore di Dio da quello verso il proprio simile, dunque contraddire il cuore dell’annuncio evangelico di Gesù (cfr. Mc 12,30-31; Mt 22,37-40; Lc 10,27).

L’eventualità costante di offrire un dono cultuale[7] e quella possibile di ricordare un motivo di ostilità da parte di un proprio fratello, suscita, in rapida successione, due esigenze: la necessità immediata di distogliere l’attenzione da quanto di rituale è stato portato; il dovere continuato di dirigersi verso la persona in questione, l’obbligo istantaneo di riconciliarsi con essa. Soltanto a questo punto, viene prospettato il compito comunque necessario di presentare l’offerta iniziale[8].

Per un ebreo interrompere un atto di culto era un comportamento impensabile, anche se veemente è, nell’AT, la polemica contro coloro che compiono atti di culto senza essere onesti e giusti (cfr. Am 5,21-24; Os 6,6; Is 1,10-17).

Ciò significa che la riconciliazione con l’altro, quale collaborazione alla guarigione interiore, è un dato decisivo perché ci sia effettivamente il rapporto dell’essere umanio con Dio.

Riconciliarsi nella Bibbia, dal Primo al Nuovo Testamento, significa divenire qualcosa di diverso, cambiare in varia misura se stessi[9]. E questa nuova situazione conduce sulla strada di un’autentica serenità.

E questa volontà di pacificazione nelle relazioni umane si estende ampiamente al terreno del possibile contenzioso materiale quotidiano (vv. 25-26)[10]. Mettersi d’accordo con l’avversario in tribunale prima del dibattimento, dunque lungo il corridoio verso l’aula di giustizia, implica il riconoscimento delle proprie responsabilità onde evitare conseguenze ben peggiori.

È assai interessante sotto il profilo culturale il fatto che l’idea di giudice che emerge negli ultimi versetti esaminati non ha alcun riscontro nella struttura giuridica romana dell’epoca, dove non esistevano funzionari statali ai quali fosse demandata esclusivamente l’amministrazione della giustizia.

Nel I secolo d.C. «la civiltà greco-romana non si era ancora imposta nelle aree rurali del Medio Oriente. Mentre le città erano già entrate nella sfera ellenistica e stavano per essere assorbite in quella romana, la popolazione rurale dei tempi di Cristo era ancora più o meno immune da tali influenze»[11].

In questo versetto prevale, quindi, il substrato culturale locale rispetto alla normativa dell’occupante romano. Sia il contesto d’assieme che le conclusioni dei vv. 25.26 (così come il passaggio parallelo di Lc 12,58-59) fanno pensare che si parli di un debitore moroso e dell’incarcerazione conseguente al mancato pagamento del dovuto[12]. D’altra parte il centro del discorso non è il contenzioso che porta in tribunale, ma l’ira incontrollata che contrappone gli individui e che deve essere trasformata in cordialità nella prospettiva di una riconciliazione che è vista come l’obiettivo fondamentale[13].

In ordine alla ricerca della pace con l’altro, il Gesù matteano dice che cosa bisogna fare, non come bisogna agire: il discernimento delle modalità è lasciato alla creatività umana. La sola alternativa alla logica della riconciliazione, che è fondata nello spirito del dono e cambia se stessi e gli altri, è il ritorno al sistema dello scambio che non conosce misericordia.

E la lettura dei vv. 23-26 in rapporto ai brani di Mt 9,13; 12,7 e alla parabola dei due debitori di Mt 18,21-35[14] non fa che rafforzare ulteriormente una consapevolezza: l’unico modo per sottrarsi alla condanna escatologica è proprio la ricerca dell’armonia con i propri simili. Come? Dove? In una prospettiva etica in cui il perdono ha un ruolo decisivo, anzitutto nella dimensione mortale della vita vista nella prospettiva della fine dei tempi. E, comunque, il controllo della propria collera diviene l’esigenza etica fondamentale al fine di perseguire con successo questo obiettivo.

Gesù radicalizza il comandamento sull’adulterio (cfr. Es 20,14) accostandolo con uno degli ultimi (cfr. Es 20,17). Ovviamente qui si parla di donna coniugata e il desiderio menzionato è una forma di possessività che parte dal cuore.

La gravità dell’adulterio, considerato come colpa della donna e dell’uomo nei confronti di un altro uomo, consiste nell’ingiustizia recata a quest’ultimo verso il suo bene più prezioso, che è, appunto, la donna stessa. Questo comportamento ingiusto è già contenuto nell’intenzione di porlo in essere perché il cuore dell’essere umano è la sede delle decisioni esistenziali[15].

Il riconoscimento dell’altro come un «tu», comune ai diversi filoni giudaici dell’epoca[16], trova nelle parole di Gesù qualcosa di nuovo e di ulteriore: la solennità della condanna verso la «profanazione» del rapporto interpersonale più basilare della società umana. Gesù esprime la sua opposizione ad ogni atteggiamento che renda l’altro oggetto della propria brama strumentalizzante.

In nome di quale valutazione? Il rifiuto del sistema relazionale che consideri la persona come una «merce» di scambio o come un semplice partner, intercambiabile in ogni momento. Gesù non stigmatizza il sentimento, ma l’intenzione: non si tratta di una presa di posizione contro il desiderio in quanto slancio emotivo, ma contro la scelta comportamentale che si lascia dominare e orientare da questo genere di passionalità irriflessa.

E attraverso l’associazione di idee consentita dallo sguardo relazionalmente «distruttivo» il testo propone due loghia gesuani paradossali di alto valore simbolico (vv. 29-30). La rinuncia a due parti del proprio corpo fondamentali per una vita pienamente umana – occhio[17] e mano destra[18] – è indispensabile rispetto alla necessità di salvare la propria interiorità, dunque se stessi.

E il salto di qualità del Gesù matteano, rispetto alla tradizione a lui precedente, è particolarmente evidente nei vv. 31-32. Essi affrontano un argomento differente rispetto ai due iniziali di questa pericope, approfondendo notevolmente il discorso sinora condotto. Infatti ripudiare significa respingere la moglie «al mittente» conservando la possibilità di risposarsi[19].

Ma che cosa di effettivamente vergognoso poteva motivare il ripudio? Già negli ascendenti testuali ebraici di Dt 23,15 e 24,1 il discorso è piuttosto ambiguo. La resa più comune infatti fa riferimento ad una sorta di impurità sessuale non specificata. Questa linea ermeneutica semanticamente ampia è sposata non soltanto dalla scuola rabbinica di Hillel, ma anche da Filone Giudeo[20], Giuseppe Flavio[21] e dalla stessa versione matteana (cfr. 19,3).

In questo lòghion si afferma l’interdizione del divorzio[22] per ragioni di rispetto della partner originaria e del suo avvenire. La miglior giustizia è la conservazione del legame, non per ragioni intrinseche alla norma, ma per la difesa delle possibilità esistenziali della donna.

L’unica deroga al principio che il divorzio è illecito è l’atto di pornèia. Di che cosa si tratta? Considerando quanto si è detto sinora circa il retroterra primo-testamentario del passo in esame e non trascurando la valenza sessuale negativa del termine porneiva in altri passi neo-testamentari (cfr., per esempio, 1Ts 4,3; Mc 7,21; 2Cor 12,21; At 15,20.29), pornèia appare traducibile come impurità colpevole. Ciò contempla non soltanto il flagrante adulterio, ma anche una parentela fra i coniugi o l’origine straniera, non ebrea, di un coniuge e, comunque, qualsiasi rapporto sessuale di carattere extra-matrimoniale[23] e anche, probabilmente, qualsiasi abnorme predominanza dei motivi passionalmente erotici.

Questo passo matteano è da secoli molto discusso, non soltanto in ordine all’attribuzione dell’inciso che contempla il vocabolo pornèia (direttamente gesuana o frutto del redattore matteano e delle esigenze della comunità dei suoi destinatari), ma anche in merito all’intendimento sotteso al testo in sé. Infatti, se si considera la lettera del testo, esso propone un’eccezione all’indissolubilità matrimoniale.

Tenendo conto anche delle analogie sostenibili con casi contemplati nelle lettere paoline (cfr. 1Cor 5,1; 6,12ss) la seguente interpretazione mi pare piuttosto persuasiva:

«La comunità di Matteo si è trovata stretta fra il comando del Signore sull’indissolubilità del matrimonio e l’impossibilità culturale di «usare» di certi matrimoni, ormai diventati una cosa immonda, impudica… Nell’ambiente di Matteo c’era, dunque, la preoccupazione della «unità» del matrimonio, ma, contemporaneamente, della sua «santità» reale… Come Marco ha preso ciò che Gesù ha detto sul ripudio trasportandolo nella cultura romana (e parlando quindi non più di «ripudio», ma di «divorzio»), allo stesso modo Matteo prende le parole di Gesù e le immette nella sua cultura. Un matrimonio che diviene contaminante per la mentalità ebraica è inaccettabile, poiché un matrimonio senza l’uso legittimo della sessualità non è ammissibile»[24].

Quello che è certo, per quanto riguarda l’opposizione nei confronti di adulterio e divorzio è la centralità delle nozioni di responsabilità verso il coniuge e di incondizionata fedeltà[25]: «Gesù parla di una persona consapevole del fatto che l’amore tra uomo e donna dà lo stesso peso all’amante e all’amato… Qui non si parla di dominio di sé fino a mortificare ogni desiderio sessuale sregolato. Qui si parla di una persona che è assorbita dalla totalità dell’amore per il suo partner e che sa allontanare da sé ogni pericolo di lacerazione di questo amore»[26].

Il discorso di Gesù resta, comunque, un approfondimento notevole della tradizione giudaica. Infatti esso si riallaccia, implicitamente, ma chiaramente all’idea di relazione inter-sessuale propria dei racconti di Gen 1-2 che abbiamo esaminato all’inizio di questo nostro libro. Proprio dall’unione reciproca, progressiva e avvolgente, maschio e femmina hanno modo di venire ad essere sempre più umani. Nel loro rapporto la giustizia consiste nella responsabilità personale che ogni «io» assume verso il «tu» in rapporto al proprio e altrui avvenire.

Il redattore matteano fa una proposta del tutto coerente con la predicazione di Gesù: siccome la pornèia distrugge il matrimonio in sé, nessun legame costruito secondo il modello del rapporto intersessuale di Gen 1-2 può sussistere in presenza di essa, che è qualcosa di assai più rilevante e significativo di quanto la Toràh prevedesse in Dt 24,1.

Nelle prime tre affermazioni dei vv. 21-32 il Gesù matteano ha invitato i suoi ascoltatori/lettori a prendere coscienza di due aspetti essenziali: la soggettività dell’individuo come destinatario della giustizia divinamente intesa e la necessità di riconoscere l’altro in una relazione intersoggettiva «io-tu».

Nelle tre affermazioni successive il testo propone le caratteristiche di una nuova etica della comunicazione interumana.

Ogni giuramento può essere – nel giudaismo vi era questa prassi – una forma di aggiramento dell’importanza e del ruolo divini attraverso il riferimento a vari elementi: il cielo, inteso come la sede del Divino, nella quale nessun potere diverso può debitamente agire; la terra, che non è soggetta alla giurisdizione autonoma neppure degli esseri umani; la città di Gerusalemme[27], strettamente connessa al Regno e alla nozione della regalità di Dio.

Quindi occorre, secondo il Nazareno matteano, evitare ogni rischio di strumentalizzazione della potenza di Dio, così da preservare la santità divina da ogni indebita chiamata in causa da parte dei destinatari del suo discorso.

Gli esseri umani sono legittimati ad agire da sé laddove sono strutturalmente abilitati a farlo e ad astenersi dal coinvolgere ambiti, sui quali essi non hanno alcuna possibile influenza (emblematici sono gli esempi della testa, la parte più significativa dell’individuo, che è proposta in luogo dell’integralità della persona[28], e della colorazione effettiva, non soltanto transitoria dei capelli[29] – v. 36).

In definitiva quanto il testo matteano sottolinea non è la mera proibizione dei giuramenti, ma quanto sia inevitabile, secondo le premesse religiosamente indebite poste, che un giuramento si trasformi in uno spergiuro, dunque in un’infedeltà nei confronti di Dio.

Gesù va certamente al di là della tradizione mosaica e giudaica in genere, in relazione alla sua volontà di ribadire, anche in questo caso, il primato del rapporto vitale ed equilibrato con Dio su qualsiasi altro valore[30]. All’abbandono dell’appello all’extra-umano corrisponde una vera e propria «igiene» ad un tempo interiore e verbale (v. 37).

Ciò che è davvero esauriente nell’esprimersi umano, nella coerenza tra cuore e labbra, tra interiorità decisionale e verbalità esterna, è un’alternativa netta: un vero «sì» o un vero «no» nel pensare, nel parlare e nell’agire, senza ambiguità e senza ambivalenze, alla ricerca di un’identità umana unitaria sia a livello psicologico che etico[31]. Ed è sempre la condizione del cuore a decidere se il «sì» è realmente un «sì» e se il «no» è davvero un «no»[32].

La giustizia migliore si declina anche nella chiarezza e rettitudine di comunicazione. Già nell’AT ciò veniva affermato (cfr., per es., Sal 37,30-31). Gesù approfondisce e radicalizza questa consapevolezza. Infatti la parola, ascoltata e detta, è il principio della vita di ogni essere umano: con essa egli capisce, interpreta e trasforma la realtà.

Se la parola è comunicativa, vera e liberante, è ad immagine e somiglianza del modo di comunicare attivo ed efficace proprio di Dio: unisce agli altri individui e consente di vivere autenticamente il rapporto di figliolanza con il Padre di tutti.

Se la parola è possessiva, menzognera e impegnata a «possedere» l’altro, è diabolica: divide dagli altri e confina nell’oscurità della solitudine. A Gesù, in questo caso, interessa «proporre l’ideale di un uomo nuovo e di una società nuova, in cui non c’è più timore della menzogna e non regna più sovrana la sfiducia reciproca»[33]. Agli esseri umani deve essere possibile manifestare se stessi tramite affermazioni certo referenziali, ma chiare e inequivocabili, e non attraverso formule che vadano al di là delle proprie risorse strutturali.

E nella proposizione quanto è più di questo viene dal maligno la copula conclusiva del testo greco è evidenzia che un rapporto diretto con il male è la conseguenza costante e imprescindibile di un modo di pensare, dunque di esprimersi che vada al di là della trasparente e coerente essenzialità umana[34].

La legge del taglione qui presentata è certamente un principio di equanimità, su un piano di giustizia distributiva, soprattutto in considerazione del fatto che essa venne a sostituire, nei rapporti interpersonali, il principio della vendetta arbitraria[35]. Insomma, se la logica è quella del corretto equilibrio relazionale, ci si trova di fronte ad un indiscutibile, cospicuo passo avanti (cfr. Es 21,23-25; Lv 24,20; Dt 19,21), nella prospettiva di far finire la contesa e ristabilire una posizione di parità tra aggressore e aggredito, tra offensore e offeso.

La logica di Gesù, però, non reputa sufficiente questa strada di ristabilimento della giustizia e ne propone un’altra (v. 39a): non porsi sullo stesso piano, nella logica di chi opera il male[36]. Chi vuole seguire il Nazareno, non deve illudersi che l’imperativo della Toràh sia efficace, ma deve essere indisponibile a fronteggiare chi ha compiuto il male ponendosi allo stesso livello e reagendo sullo stesso piano[37]. Ciò non va inteso, però, nel senso, passivamente rinunciatario, di lasciare semplicemente il campo libero all’agire e all’impazzare del malvagio.

Il testo – come esprime bene il verbo greco dell’originale – indica di non porsi sul piano di chi opera atti di malvagità. Come? Rifiutando, su questa linea, ogni relazione con lui, così da rompere il circolo vizioso capace di moltiplicare la violenza, perpetuandone l’esistenza. E questo con la duplice finalità – l’una esplicita, l’altra implicita – di interrompere il prodursi del male (esito impossibile se si applica la legge del taglione) e di mostrare efficacemente all’interlocutore una logica d’azione radicalmente diversa dalla sua.

E tutto ciò deve attuarsi in situazioni quotidiane, che sono tanto comuni quanto paradigmatiche nella loro offensività: l’oltraggio infamante di un manrovescio[38], la disputa indebita, davanti al giudice, circa la tunica propria, la costrizione a percorrere un miglio in condizioni di assoggettamento (vv. 39b-41).

E ognuno degli ascoltatori di Gesù, per mostrare, a chi compie il male, l’irrilevanza del suo agire nella propria vita e per la propria persona, deve anche esporsi volontariamente ad un sostanziale prolungamento di questi oltraggi (secondo schiaffo / cessione anche del mantello[39]/ raddoppio del tragitto). La tattica della non-violenza come il Gesù matteano la descrive e raccomanda qui, utilizza una forma pragmatica di comunicazione al fine di provocare la riflessione altrui e dare all’interlocutore l’occasione di cambiare atteggiamento. Sia Gandhi che Martin-Luther King l’hanno utilizzata molto bene.

La chiusa dell’argomentazione (v. 42) risulta allora una vera e propria sintesi, comprensibile nella linea enunciata dall’inizio del cap. 5 (cfr. 5,3-10): le sole esigenze cui non far fronte sono quelle che pongono sulla stessa lunghezza d’onda del malvagio.

Questo appare il modo più idoneo per portare a pieno compimento la realizzazione della Toràh, giungendo alla radice della giustizia divina in termini certamente più adeguati di quanto possibile alla legge del taglione, che appare in tutta la sua valenza giuridica e in tutta la sua inadeguatezza morale[40].

In questa prospettiva di rifiuto di ogni forma di male, qualsiasi altra richiesta di aiuto merita ascolto e risposta positiva. Infatti essa è del tutto conseguenziale alla scelta di rompere con la logica dello scambio «simmetrico» di male e violenza. Il nuovo sistema di relazioni creato dal rifiuto di questi atteggiamenti ha l’unico scopo di manifestare la gratitudine per la misericordia perfetta di Dio Padre. Come? Proprio attraverso il riconoscimento dello spirito di gratuità e della logica del dono.

Infatti, quantunque il linguaggio utilizzato sia evidentemente di carattere tecnico-giuridico, questo brano non propone

«un nuovo modo, più severo e liberale, di amministrare il diritto nelle situazioni conflittuali. La proposta evangelica si oppone ad una concezione codificata e statica dei rapporti umani, dove l’ideale è l’ordine o lo status quo reintegrato a tutti i costi… Si tratta di una strategia attiva, inventiva e aperta, volta a creare un rapporto nuovo con l’avversario, liberandolo dalla sua logica e prassi di malvagità e di ingiustizia violenta»[41].

In definitiva l’invito «sovversivo» di Gesù intendeva aprire una strada che consentisse di opporsi alla malvagità senza rispecchiarla, di resistere all’oppressione senza emularla, di neutralizzare il nemico senza esserne distrutto.

Il discorso trova un approfondimento ed allargamento definitivi nei versetti seguenti.

La morale giudaica corrente tendeva a distinguere con estrema nettezza amici e nemici[42]. Gesù porta alla massima accentuazione possibile la componente positiva del portato tradizionale.

Come? Attraverso la continuativa, ascendente «intimazione» non a perdere di vista quello che è stato sino ad allora, ossia il fatto di avere subito ostilità e oppressione, ma a scegliere la via dell’amore disinteressato, quotidiano ed intenso (= agàpe) verso i nemici (v. 44a) e a declinare quest’amore altruistico domandando a Dio il bene dei persecutori (v. 44b) [43].

Quest’opzione non facile[44] ha un preciso fondamento: la possibilità per tutti gli esseri umani di acquisire la consapevolezza che possono divenire figli di Dio (v. 45a). E quest’ultima espressione, come si comprende bene dall’insieme dei capp. 5-7, non significa altro che questo: essere partners del Signore in un libero rapporto di amore che orienta verso gli altri tutta la propria vita.

E sono proprio l’amare i nemici e il pregare per i persecutori a innescare un processo di formidabile cambiamento e potenziamento esistenziale, che chiama in causa, e in profondità, la libera responsabilità del singolo. Si veda, infatti, il significato finale della frase del v. 45: il Signore Dio rispetta a tal punto la libertà etica degli esseri umani da garantire a tutti le medesime caratteristiche ambientali di fondo. I profili morali degli individui – in cui giustizia e bontà sono sinonimi come, rispettivamente lo sono malvagità ed ingiustizia – non sono né possono essere riconducibili all’influenza del Creatore sulle condizioni primarie del Creato quali la presenza del sole e della pioggia.

La logica retribuzionista, ossia una giustizia preoccupata esclusivamente di riequilibrare le situazioni, mostra ormai chiaramente la sua insufficienza (v. 46). L’attenzione meramente familiare e clanica, tesa a definire i confini sociali della solidarietà umana, mostra i suoi limiti (v. 47)[45].

E citando due categorie come quelle, rispettivamente, di pubblicani[46] e pagani, il testo indica quali termini di confronto etici occorre superare, se si vuole essere all’altezza morale del discorso di vita che il Gesù matteano sta proponendo. Eventuali possono essere le forme di amore e di attenzione nei confronti di pubblicani e pagani: a queste condizioni, però, oggettiva è la mancata crescita etica sostanziale in chi si comporti così nei loro confronti.

Infatti la «versione positiva» della legge del taglione è la normalità relazionale più consueta anche nei confronti di coloro che non sono di matrice giudaica. Solo se si realizza il superamento di questa condizione, allora Dio si configura come il Padre celeste dei discepoli: «nella comprensione di Matteo, la paternità di Dio è posta in qualche modo nelle mani dei discepoli. Essa si realizza e appare all’interno della loro responsabilità»[47].

L’amore fattivo e quotidiano al di là delle ostilità incontrate nella propria vita è il criterio essenziale dell’umanità di ciascuno. E il punto culminante di questa opzione è l’apertura verso chi è manifestamente ostile: «mai ci accostiamo a ciò che è veramente divino come quando amiamo i nostri nemici, con tutto quello che tale amore comporta… L’amore per il nemico è veramente un altro nome per dire Dio»[48].

Ma chi sono, in ultima analisi, questi nemici e questi persecutori per i cristiani delle prime generazioni? Se leggiamo questo passo matteano, mettendo a confronto i vv. 44-45 e i vv. 46-47, e lo facciamo tenendo conto dei suoi probabili contesti storico-culturali – magari anche in relazione al parallelo di Lc 6 – occorre riconoscere che vi è un restringimento evidente rispetto alla probabilissima prospettiva illimitata del Nazareno effettivo,

«restringimento dei destinatari della parola di Cristo, ma anche, conseguentemente, restringimento del ventaglio di applicazione della categoria di nemico. Si tratta ora del nemico di religione, che dall’esterno si mostra ostile verso i membri del movimento di Gesù, o anche del nemico personale. Se Gesù guardava all’abbattimento delle barriere, chiamando ad abbattere dentro le persone la «nemicità» in nome di un Dio che abbatte ogni steccato tra giusti e empi, orala Chiesasisepara,ancorauna volta, dai pubblicani e dai peccatori, come dai pagani, invocando per sé icomandamento della amore dei nemici»[49].

Nel passaggio dalla gobalità della visione gesuana a quella contestualizzata e ridottadei cristiani delle origini, l’importanza fondamentale dell’amore è comunque ribadita tanto dai versetti sinora considerati quanto dalla conclusione del brano. Gesù indica agli ascoltatori la meta dell’essere e dell’agire da lui prospettato in precedenza: il divenire téleioi (= perfetti – v. 48).

Nel Primo Testamento greco téleios è l’agnello senza macchia destinato al sacrificio pasquale (Es 12,5-LXX). Tale vocabolo greco

«influenzato dal linguaggio semitico, ha il significato di interezza, l’opposto di discordia che, albergando «due cuori nel proprio seno» è non unione con se stessi… Quest’interezza illimitata, ininterrotta, esige per sé tutto il cuore e l’agire di una persona, affinché il modo di pensare e di operare siano scolpiti in una stessa pietra, senza lasciar spazio alla schizofrenia, per rendere perfetta la completezza della possibile esistenza umana come esigenza che può essere soddisfatta»[50].

La misura della perfezione è il Signore Dio e i tratti di questa condizione sono quelli del rapporto d’amore dinamico e vivificante, arduo ed inimitabile, che è stato prima evocato, radicato nel fatto che Dio è già perfetto.

Gli esseri umani destinatari delle parole di Gesù, dai discepoli alla folla, devono sapere che, comportandosi come il testo matteano ha delineato sin qui, necessariamente conseguiranno, la condizione etica ottimale contenuta nella perfezione evangelica, cioè nella piena relazione con Dio.

Essa è intenso, positivo ed appassionante rapporto con tutti gli altri esseri umani: «il termine del confronto che determina la perfezione è il comportamento di Dio, non un’idea di uomo»[51].

Questa ricerca di perfezione[52], tanto in Matteo quanto, ad esempio, nella lettera di Giacomo[53], ha tre connotazione importanti:

– indica una dedizione e fedeltà verso Dio tramite specifiche modalità pratiche;

– è raggiungibile attraverso l’accoglimento di sofferenze e persecuzioni tra loro connesse;

– ha la prospettiva di una ricompensa per coloro che perseverano nella fedeltà a Dio a prezzo delle sofferenze e persecuzioni stesse. Si tratta di una ricompensa fatta di gioia visibile e luminosa nella dimensione mortale della vita e di felicità in quella escatologica.

Tendere a questa perfezione appare come una risposta umana fiduciosa all’offerta d’amore fatta da Dio nelle parole e nella vita di Gesù.

Tale proposta come risulta dai vv. letti, è aperta sull’avvenire di ognuno e consiste propriamente nel radicare il proprio essere ed agire nell’essere ed agire del Padre[54].

Ciò può avvenire senza cedere ad alcuna facile emotività e ad alcun illusorio sentimentalismo: i nemici sono e restano reali e amare i nemici e pregare per i propri persecutori non significa essenzialmente volgersi verso di loro e chiamare in causa Dio al fine di trasformarli in amici.

Certo, tutto questo è del tutto auspicabile e desiderabile, ma non è la motivazione fondamentale di questa scelta etica. Essa si dà come puro esercizio di giustizia verso Dio e verso i propri simili, una giustizia (cfr. Mt. 5,10.20) che è il volto etico morale della perfezione divina.

Ecco perché la traduzione complessivamente più corretta del v. 48 dovrebbe essere: «sarete dunque pienamente umani come è pienamente Dio il Padre vostro celeste».

 

 

  1. Da Mt 5,21-48 alla vita di oggi

Dal v. 17 al v. 48 il vangelo secondo Matteo centra la sua attenzione su due aspetti: la continuità tra l’insegnamento di Gesù e la Toràh e la radicalizzazione e il completamento della Toràh che tale insegnamento esprime.

La prospettiva fondamentale di questa sezione del discorso della montagna ne è una dimostrazione efficacissima secondo due direttrici: dall’esterno all’interno e dal particolare all’essenziale. Non si va contro la Toràh se si esige più di quanto essa richieda. Il testo evidenzia quali debbano essere i comportamenti del discepolo che aspira ad essere degno della figliolanza con Dio.

In questi termini vanno legittimamente intesi il pieno rispetto della persona altrui, sia in quanto tale che nella sua dignità relazionale; la coerenza tra interiorità e socialità individuale; il rispetto totale della propria creaturalità divina; il perseguimento di un ideale di vita di costante apertura al trascendente nell’armonia con l’immanente.

La lettura letterale della Scrittura, dunque l’interpretazione di una parte significativa della classe dirigente giudaica, è superata da una migliore comprensione della volontà divina. Attraverso che cosa? Tramite parole che arrivano al significato profondo della Parola che esprime questa volontà: «il dibattito ermeneutico tra la comprensione della volontà di Dio, come Gesù la rivela, e la tradizione interpretativa farisaica della Legge e dei profeti è la forma che assume la distinzione tra la comprensione letterale della lettera e la comprensione del suo senso (= il suo compimento)»[55].

Il Gesù matteano, dopo aver preannunciato proprio nella proclamazione delle beatitudini in Mt 5,3-12, una sorta di rinnovamento dell’alleanza e delle promesse ad essa collegate, identifica ed evidenzia ora il comportamento di chi è chiamato a godere il frutto di quelle promesse.

Le prospettive riservate a tutte le categorie di beati, dai poveri in spirito ai perseguitati per causa della giustizia, esigono un modo di vivere in cui

«ci si trattiene non solo dall’uccidere, ma persino dall’insultare, non solo dal tradire, ma anche dal desiderare di farlo, in cui si vuole restare fedeli al vincolo contratto, in cui si è lineari e disarmati nel proprio parlare, in cui ci si lascia togliere tanto la tunica quanto il mantello e in cui si amano i nemici e si prega per i propri persecutori. Questi la promessa e l’insegnamento di Gesù»[56].

La notevole progressività, senza automatismi eticamente illusori, e il costante dinamismo sono evidenti e toccano i rapporti tra discepoli di Gesù e vari altri aspetti della vita sino al superamento di qualsiasi normalità morale, per quanto diffusa e comunemente riconosciuta.

Dio è perfetto perché il suo amore è senza limiti, perché egli ama ogni individuo come persona indipendentemente dalle sue qualità e perché egli conserva in vita cattivi e buoni, giusti e ingiusti. Quest’assenza di condizioni e di calcoli che caratterizza l’amore di Dio e il comandamento corrispondente di amare i propri nemici possono essere interpretati soltanto come un rifiuto fondamentale di un ideale di perfezione di carattere elitario ed essenzialmente volontaristico.

La giustizia «che oltrepassa, che sovrabbonda» e la perfezione «valutata» sulla base di quella divina non pongono a fondamento e a misura della perfezione evangelica un ideale di dedizione umana né

«la generosità di un servizio dettato semplicemente dai bisogni degli uomini, nemmeno… un ideale misurato soltanto sulla dedizione dell’uomo a Dio, bensì un ideale che si verifica sul comportamento di Dio verso l’uomo… Siamo di fronte a un capovolgimento di orizzonte: radice e misura del radicalismo evangelico è la Croce di Gesù, considerata soprattutto come l’icona di un Dio che dona se stesso al mondo… Così il radicalismo dell’esistenza di Gesù: in ogni gesto e in ogni parola Egli ha lasciato trasparire l’amore del Padre per l’uomo. Il radicalismo evangelico è nell’ordine della rivelazione prima che del servizio»[57].

D’altra parte la prospettiva delineata anche solo dalle ipertesi matteane dei vv. 21-48 culmina proprio nell’ideale di una pienezza di vita che è caratterizzata dalla massima positività possibile nella realizzazione dei due rapporti fondamentali dell’esistenza che sia davvero cristiana: quella con il Padre di tutti e quella con le proprie compagne e i propri compagni di umanità[58].

Il tutto nella consapevolezza di una peculiarità propria della predicazione di Gesù: l’amore attivo verso ogni categoria e tipologia di persone che ha il suo punto più elevato nell’apertura generosa verso i nemici estranei e diversi. Si tratta del nuovo modo di intendere e attuare la volontà di Dio, la «superiore giustizia», condizione essenziale per l’accesso al regno dei cieli.

E occorre sempre tener presente un dato di fatto: le parole di Mt 5 interpretano parole del Nazareno che, come altre, qui e altrove in Palestina e nelle zone limitrofe[59], esprimono un amore straordinario. Quale? Quello che è il movente di un epilogo epocale come quello del Getsemani e del Golgota.

In questo quadro di coesistenza tra radicalità etica, proveniente dalle parole del Nazareno, e ordinaria mediocrità, vissuta dai suoi contemporanei e dai destinatari della versione matteana, era comprensibile e praticabile tendere alla perfezione come ricerca di imitazione della giustizia di Dio. Il tutto doveva e deve avvenire in termini non di eccellenza etica astratta, ma di intelligenza e passione relazionali. Nei confronti di chi? Di quanti nella vita siano propri interlocutori e conviventi, giorno dopo giorno, dai rapporti familiari a quelli sociali in genere.

 

Per approfondire la lettura dei testi biblici commentati in questi articoli e di altri passi primo-testamentari e neo-testamentari, si veda il libro «Donne e uomini» (Effatà, Cantalupa [TO] 2014)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Cfr., per esempio, Gen 4,5; Sir 22,24; Testamento di Simeone, 2,6-7,11; Testamento di Dan 1,7-8; 2,3.

[2] Come è noto, il sinedrio poteva emettere anche sentenze capitali, ma non aveva il potere di portarle ad esecuzione (facoltà in termine tecnico latino, ius gladii), che il potere romano aveva tenuto per sé («Si insegna: quarant’anni prima della distruzione del Tempio, furono tolte [ai giudei] le sentenze capitali» – Talmud Jerushalmi. Trattato Sanhedrin, 18a; Midrash Mekiltà sull’Esodo, 21,14).

[3] Cfr. 1QS 6,25-27; 7,2-5.8-9.

[4] «Un maestro della Mishnà insegnava davanti a rab Nahman, figlio di Isaaq: «Chiunque faccia impallidire il viso del suo compagno davanti a molti individui, è come se spargesse sangue». Ed egli rispose: «Bene ti sei espresso, io stesso ho visto (sul volto di chi è stato umiliato come di chi è vicino a morire si può notare come il colore defluisca sino a farlo diventare pallido) il colore roseo lasciare il posto al pallore»» (Talmud Babli. Trattato Baba metsi’a, 58b); «Rabbi Johanan disse nel nome di Rabbi Simeon ben Johai: «È meglio per un uomo gettarsi in una fornace ardente che far impallidire il volto del suo compagno davanti a molti»» (ivi, 59b; cfr. anche Talmud Babli. Trattato Nedarim, 22a; Trattato Qiddushin, 28b).

[5] Cfr., per es., 2Henoch 44,2-3.

[6] P. Lapide, Il discorso della montagna, tr. it., Paideia, Brescia 2003, p. 64. A Qumran questi violenti eccessi verbali venivano guardati assai sfavorevolmente (Cfr. QS VI,24-27; VII,3.4.5.9.14). Circa le prese di posizione dure verso gli altri esseri umani e la loro censura altri passi neo-testamentari sono particolarmente eloquenti: si pensi, per es., a 1Gv 3,15 e Gc 3,5-10.

[7] Si tratta di una condizione espressa al presente. Durativa, dunque senza limiti temporali è la necessità dell’offrire a Dio i segni della propria volontà di relazione con lui. E il passaggio alla seconda persona singolare indica ulteriormente l’usualità dell’azione in oggetto.

[8] «Non puoi celebrare la paternità, se prima non cerchi di ristabilire la fraternità» (S. Fausti, Una comunità legge il vangelo di Matteo, I, EDB, Bologna 1998, p. 76). Circa gli ascendenti relativi alla purezza dell’offerta e ai criteri che la rendono effettivamente tale, al di fuori di qualsiasi formalismo, Cfr. Is 1,13.15-17; Pr 15,8; 21,3.27; Mishnà. Yoma 8,9.

[9] Il corpus neo-testamentario mette in chiaro la sintesi tra cambiamento di mentalità e ritorno a Dio. Risulta del tutto evidente che la conversione è l’orientamento/riorientamento al Dio di Gesù Cristo tramite un continuo rinnovamento della globalità della persona a partire dalla mentalità. I vocaboli metanoèo e metánoia fanno proprio riferimento a questo ripresa complessiva di se stessi in vista di un rinnovato rapporto con Dio e con i propri simili. E il cambiamento in questione viene espresso, nel NT, da termini legati alla radice allássô (= «essere altro… cambiare»). Per ulteriori approfondimenti sui temi della conversione e della riconciliazione, mi permetto di rinviare a due miei saggi, La gioia del perdono. Lettura esegetico-ermeneutica del vangelo secondo Luca, EMP, Padova 2012, pp. 406-412; Scrivere al cuore dell’essere umano. Le lettere del Nuovo Testamento tra esegesi antica ed ermeneutica contemporanea, LAS, Roma 2011, pp. 133-135.

[10] Cfr., in proposito, Prv 6,1-5; 25,7-8; Sir 18,19-20; 29,4; 4Q417 2 I 21-23; 4Q416 1 II 4-6.

[11] J.S. Jeffers, Il mondo greco-romano all’epoca del Nuovo Testamento, tr. it., San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2004, pp. 212-213.

[12] «La pena inflitta ai debitori insolventi che dovevano rimanere in prigione, condannati ai lavori forzati fino all’estinzione del debito, allude con trasparenza al castigo del giudizio divino: nel qual caso non si finirà mai di saldare il conto» (S. Panimolle, Il discorso della montagna, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo [MI] 1986, p. 92).

[13] Questi versetti potrebbero essere certamente solo «figura del giudizio divino. Il parallelismo tra le sottoparti estreme (5,22 e 5,25-26), infatti, con l’uso di termini appartenenti al campo semantico del giudizio e soprattutto mediante l’uso di espressioni poste in simmetria (cfr. v. 22 e 26) suggeriscono certamente questa idea» (G. Lori, Il discorso della montagna, dono del Padre, EDB, Bologna 2013, p. 63).

[14] Per una lettura approfondita di questo passo matteano mi permetto di rinviare al mio saggio La giustizia della vita. Lettura esegetico-ermeneutica del vangelo secondo Matteo, EMP, Padova 2013, pp. 238-252.

[15] Il testo matteano si colloca a questo proposito in tradizioni culturali greche e giudaiche assai ricche: si vedano, per esempio, Pseudo-Focilide,52; Lettera di Aristea,133; Talmud Babli. Meghillà,20a.

[16] Per quanto riguarda questo argomento nei due terreni giudaici «coevi» e «paralleli» ai testi evangelici, ossia Qûmràn e la tradizione rabbinica, Cfr., rispettivamente, 1QS 1,5; 5,5 e b Hal 1; Nm Rabbà 8,5; Lv Rabbà 23,12; Tr Kalla 1,17.

[17] Si veda, a questo proposito, un «ascendente» di rilievo come Gb 24,15.

[18] Sotto il profilo culturale sono molto interessanti sia una fonte neo-pitagorica come Giamblico, Vita di Pitagora, 31,187 sia i paralleli rabbinici (Cfr. H.L. Strack – P. Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrash, I, Beck’s, München 1922, pp. 302-303). La connessione delle due forti affermazioni dei vv. 29-30 con il tema dell’adulterio potrebbe essere comprensibile a partire anche da qualche riferimento culturale giudaico. Due esempi:

D’altra parte le affermazioni relative all’occhio e alla mano nei testi paralleli di Mt 18,8-9 e Mc 9,43-48 appaiono non connesse a quanto detto nei vv. 27-28 di Mt 5. Con ogni probabilità proprio il redattore matteano ha creato direttamente questo aggancio, che non pare riconducibile alla Quelle.

[19] Per ogni approfondimento in ambito giudaico su questo tema si veda il trattato rabbinico Gittin, ove, in chiave rigorosamente giuridica, si fissano le condizioni di validità del libello di ripudio.

[20] Cfr. De specialibus legibus, 3,30-31.

[21] Cfr. Antichità Giudaiche, III,276-277; IV,253; XVI,198; Vita, 426.

[22] Cfr. 11QTempio 57,17-19; CD 4,19-21.

[23] Cfr. C. Marucci, Parole di Gesù sul divorzio, D’Auria, Napoli 1982, pp. 262-275. «Gesù è il grande profeta itinerante, tutto proteso verso il cambiamento che sta avvenendo, per cui sostiene che anche la realtà mondana del matrimonio deve trasformarsi all’insegna di un’unione di amore eterno. La comunità matteana, d’altro canto, sa che avvengono adulteri e infedeltà, per cui invita a non approfittare delle parole di Gesù per imporre lo stare insieme sempre e comunque: non si sta insieme in ogni modo, ma nell’amore e della santità» (G. Barbaglio, L’amore coniugale nel Nuovo Testamento, in Aa.Vv., Dopo il matrimonio, Meridiana, Molfetta 2002, pp. 14-15).

[24] E. Manicardi, L’uomo creato come coppia, in Aa.Vv., Coppia e famiglia luogo di benedizione, pp. 43-44.

[25] «Ciò che rende l’individuo giusto o malvagio è il valore che accoglie o rifiuta dentro di sé, altrimenti la legge diventa fragile e la sua osservanza ipocrita. Come è giusto non colui che non uccide, ma chi toglie da sé ogni radice di ostilità, così è giusto non colui che è esteriormente fedele, ma chi abbia superato ogni desiderio di non esserlo e si dedichi totalmente alla donna che condivide la sua vita» (R. Osculati, L’evangelo di Matteo, IPL, Milano 2004, p. 46).

[26] H.-J. Venetz, Il discorso della montagna, tr. it., Queriniana, Brescia 1990, p. 62.

[27] Il fatto che l’unica città ad essere citata ripetutamente in Mt. 5-7 sia Gerusalemme appare anche una prova piuttosto eloquente che il terreno culturale di provenienza di questo brano matteano è la comunità giudeo-cristiana gerosolimitana.

[28] Circa il valore della testa, il suo ruolo nei giuramenti e la validità di essi cfr., per es., Mishnà. Trattato Sanhedrin, 3,2; At 18,6.

[29] Si legga, in parallelo a questo riferimento ai capelli, quanto si trova in Mt 10,30.

[30] In altri passi matteani (Cfr. 8,21-22; 15,4) la subordinazione di principi fondamentali della Toràh alla scelta della sequela divina diretta conferma questa scelta di Gesù.

[31] Per quanto concerne i primi secoli cristiani si veda, in merito, Gc 5,12 e Apologia di Giustino I,16,5. Paolo conosceva questa affermazione? Cfr. 1Ts 2,5; 10,2; 2Cor 1,23; 11,31; Rm 1,9; 9,1; Fil 1,8.

[32] Si vedano, in proposito, e si pongano anche a confronto testi extra-biblici come Cicerone, De officiis, I,7.23; Id., De republica, 4,7 e brani biblici quali 1Mac 8,1 e Gv 19,22.

[33] H.-J. Venetz, Il discorso della montagna, p. 74.

[34] Di grande interesse, senza ipotizzare insostenibili relazioni o dipendenze culturali, è il confronto dei vv. 33-37 con alcuni passi di due dialoghi platonici quali Fedro (cfr. 260c.275c-276c) e Cratilo (cfr. 396d-e.398e).

[35] Cfr., in proposito, la trattazione interessante di O. Artus, Les lois du Pentateuque, Cerf, Paris 2005, pp. 103-104.180.

[36] Per quanto riguarda quest’espressione nel Nuovo Testamento, cfr., ad es., in senso lato, Lc 21,15; Rm 12,9-21; 13,2; Gal 2,11; Ef 6,13; Gc 4,7; 1Pt 5,9.

[37] Si veda quanto valga lo stesso criterio etico, per esempio, nell’arresto e nella passione di Gesù secondo le versioni sinottiche (Mt 26,47-56; 26,67-68; 27,30 e paralleli). Si noti quanto Paolo in Rm 12,21 presenti il senso di questa affermazione del Gesù matteano.

[38] «Se qualcuno ha colpito con il dorso della mano (dunque sulla guancia destra)…egli deve versare quattrocento zouz (n.d.r.: 190 euro circa) e ciò non perché si tratta di un colpo doloroso, ma perché si tratta di un colpo umiliante, così come è detto: «Sorgi, Signore! Salvami mio Dio! Sì, tu colpisci i miei nemici sulla guancia» (Sal 3,8)» (Tosefta Baba Qama 9,31); cfr. anche testi primo-testamentari quali Gb 16,10; Lam 3,30; Is 50,5.

[39] Durante un processo la tunica, che è l’indumento a contatto con la pelle, poteva essere presa in garanzia, ma bisognava lasciare al povero il suo mantello per proteggersi dal freddo (cfr. Es 22,25-26; Dt 24,12-13); nel v. 40 non solo la disputa giudiziaria non ha fondamento pregresso, ma Gesù, quantunque tunica e mantello siano fra le necessità assolute della vita in Medio Oriente (cfr. J.J. Pilch, Il sapore della Parola. Lessico della vita quotidiana nella Bibbia, tr. it., Ancora, Milano 2000, p. 136) chiede di privarsi di tutto quello con cui potersi coprire.

[40] È notevole che nella Didaché (cap. 1) in un contesto ermeneuticamente analogo, le citazioni della Toràh (Dt 6,5; Lv 19,18) siano associate alla «Regola d’oro» (cfr. 1,2) e seguite dalla spiegazione del significato di questi tre passi con una serie di affermazioni, le prime delle quali sono chiaramente riconducibili a Mt 5,38ss (cfr. 1,3).

[41] R. Fabris, Matteo, Borla, Roma 19962, p. 154.

[42] Cfr., per il v. 43a, Lv 19,18 (quindi Mt 19,19; 22,37-38); per il 43b, Sir 18,1.

[43] La preghiera, nei capp. 5-7 della versione matteana, è il centro del discorso: prove ne sono, ad es., la collocazione, anche espressivo-strutturale, del Padre Nostro e il significato del rapporto tra Dio e l’essere umano (cfr. il klymax in proposito che si nota anche soltanto tra il v. 38 e il v. 48 di questo cap. 5).

[44] Non a caso anche nella Bibbia i passi ove se ne parla sono soltanto 6 oltre a questo, ossia Mt 6,25-34; 10,26-30; Lc 23,34; At 7,60; Rm 12,14 e 1Pt 3,9.

[45] Nella Bibbia la logica di una risposta positiva alle negatività subite trova una sua varia e ricorrente manifestazione: lo testimoniano testi diversissimi tra loro quali, per es., Prv 25,21-22 e 1Sam 24,1-19. Anche nel giudaismo extra-biblico vi sono riscontri significativi: si veda, per esempio, la sezione conclusiva del romanzo ellenistico Giuseppe e Aseneth (29,3-4).

[46] Le due tradizioni evangeliche sulla caratterizzazione dei pubblicani, l’una negativa (in connessione con peccatori, prostitute, nella categoria generale di «pagani» – cfr. Mt 18,17; 21,31-32; Lc 7,29), l’altra positiva (il pubblicano, membro del novero dei discepoli più stretti o prototipo del convertito – cfr. Mt 9,9; Lc 18,9-14; 19,1-10) sono riconducibili, la prima a tradizioni pre-matteane confluite nella versione evangelica, la seconda all’apporto dei redattori matteano e lucano.

[47] E. Manicardi, Dio Padre nella prospettiva del vangelo secondo Matteo, RTE II (4/1998), 202.

[48] H.-J. Venetz, Il discorso della montagna, p. 91.

[49] G. Barbaglio, L’amore dei nemici. Già nei vangeli una censura a Gesù, in Id., Il mondo di cui Dio non si è pentito, EDB, Bologna 2010, p. 71. «Forse la comunità cristiana non poteva fare altro. Resta comunque assodato il fatto, qui come in altri esempi della tradizione evangelica, che essa si è ritagliata su misura la parola di Gesù. Un’operazione riduttrice che non deve, ad ogni modo, far dimenticare l’orizzonte ben più ampio presente nel comandamento del suo Signore, che non cessa di costituirsi istanza critica nei confronti di interpretazioni parziali» (ivi, p. 72).

[50] P. Lapide, Il discorso della montagna, p. 138. «La perfezione messianica non può attuarsi che attraverso il sacrificio personale: è sulla croce che «tutto è compiuto» (tetélestai: Gv 19,30)» (A. Mello, Evangelo secondo Matteo, Qiqajon, Magnano [BI] 1995, p. 122).

[51] B. Maggioni, Le molte forme del primato di Dio, in Il discorso della montagna, «CredereOggi» XI (3/1991), 21.

[52] Si esaminino le accezioni ebraico-giudaiche del concetto in questione (Cfr., ad es., Gl 6,9; Es 12,5; 1Re 8,61). Si tenga oltretutto presente un connotato ineludibile: «l’uomo è ad immagine di Dio: è se stesso solo se è come lui, il «Santo». La santità è un attributo esclusivo di Dio: solo lui è Dio, santo, altro da ogni altro. La sua «alterità» ci è nota attraverso Gesù: è quella del Padre, che ama giusti e peccatori. Sulla croce, dove tutto sarà compiuto (Gv 19,30) e lui sarà riconosciuto come il Figlio (Mt 27,54), vediamo la «santità» del Padre, della quale lui è realizzazione perfetta. Questa santità non separa dal mondo e dal peccatore, ma si fa com-passione che si compromette in ogni situazione, misericordia che entra in ogni miseria» (S. Fausti, Una comunità legge il vangelo di Matteo, I, p. 82).

[53] Cfr. Gc 1,2.4.12.17.25; 3,2.

[54] Tradurre il verbo del v. 48b, come è avvenuto e avviene spesso, con un congiuntivo più o meno esortativo, non rende adeguatamente il collegamento sintattico-semantico con quanto precede, sostanzialmente dall’inizio del cap. 5 in poi, e neppure riesce a dare ragione dell’apertura temporale che il futuro propone.

[55] M. Stiewe – F. Vouga, Le Sermon sur la Montagne, Labor et Fides, Genève 2002, p. 90. Non pare casuale che la versione matteana citi due volte 0s 6,6, versetto prediletto dal grande maestro Jochanan ben Zakkaj, ove si dice che Dio stesso aveva detto di preferire la misericordia ai sacrifici, ed in entrambe le occasioni lo presenti come aggiunta redazionale al modello di Marco (Cfr. Mt 9,13 e 12,7): «il Vangelo di Matteo compete con il contemporaneo movimento rabbinico, per realizzare la «miglior giustizia» sulla base della Toràh che cristiani ed ebrei hanno in comune» (G. Theissen, la religione dei primi cristiani, tr. it., Claudiana, Torino 2004, p. 233).

[56] P. Stefani, Gesù perfezionatore della Legge e dei Profeti, in «Credereoggi" XI (3/1991), 38.

[57] B. Maggioni, Il seme e la terra, p. 187.

[58] Si leggano, in termini di confronto con questo «ascendente» matteano, altri testi neo-testamentari quali Ef 5,1-2; 1Pt 1,13-25; 1Gv 4,7-12.

[59] Mt 5,21-48 significa fondamentalmente nient’altro che quello che Gesù dice anche altrove: Dio è presente, la sua salvezza si dispiega in modo inarrestabile. Beati sono tutti coloro che vedono questo presente divino e che, attraverso il loro agire, contribuiscono al dispiegarsi della vita pienamente salvifica e felicemente risolta, che Dio vuole per tutti gli esseri umani (Mt 5,3-11, ecc.).

Chiesa cattolica svizzera

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