La Chiesa dal volto amazzonico e i nuovi ministeri

Dagli interventi in aula in questi primi giorni del Sinodo, accanto al grido delle popolazioni indigene che chiedono di essere rispettate invocando attenzione e cura per il creato, emerge un altro grido. È quello delle comunità cristiane disseminate in territori vastissimi. È quello dei pastori che con una decina di sacerdoti soltanto devono assistere anche 500 comunità sparse in centomila chilometri quadrati, con notevoli difficoltà di spostarsi da una parte all’altra.

È stato evidenziato e criticato un modo di affrontare questo tema senza il cuore del pastore. L’approccio che non parte da quel grido e non lo fa proprio, che non parte dalla esigenza di quei cristiani ai quali non è dato di celebrare l’eucaristia se non una o due volte l’anno, cristiani che non possono confessarsi e non hanno il conforto del sacerdote in punto di morte.

Ogni riflessione, ogni tentativo di risposta, ogni confronto tra posizioni diverse su questo argomento dovrebbe dunque far propria questa sofferenza. Una situazione che ha caratteristiche proprie, non sovrapponibili ad altre: il Sinodo sull’evangelizzazione dell’Amazzonia è chiamato dunque a proporre delle possibili risposte. Una di queste, com’è noto, è la possibilità di aprire – come eccezione e in via sperimentale – all’ordinazione sacerdotale di uomini anziani di provata fede (non di abolire o rendere opzionale il celibato permettendo ai sacerdoti di sposarsi). Ma non si tratta dell’unica via percorribile, nonostante sia quella su cui si concentra il dibattito mediatico.

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