Anniversario: il vescovo Valerio a 30 anni dalla sua ordinazione sacerdotale

Oggi, 2 settembre, ricorre il 30esimo di ordinazione sacerdotale del vescovo di Lugano Valerio Lazzeri. Una bella occasione per rivolgergli alcune domande, anche di carattere personale.

Mons. Vescovo, come è nata la sua vocazione, quale il ricordo più significativo?

«Per quanto riesco a ricordare, la prima volta in cui la chiamata si è fatta sentire in me in maniera esplicita è quando da ragazzo delle elementari ho risposto sul quaderno di religione alla domanda su quello che mi sarebbe piaciuto fare da grande. Ricordo di aver scritto «il prete». Un secondo episodio è stato il mio primo viaggio a Roma con il pellegrinaggio diocesano all’inizio del liceo. Lì ho incontrato dei seminaristi ed è diventata più concreta la possibilità di intraprendere questa strada. A ogni passo è sempre stato un incontro con volti e nomi precisi, che ha rafforzato un desiderio e una convinzione profonda che nascevano da dentro».

Come è stata accolta in famiglia, tra gli amici questa scelta?

«Comprensibilmente con una certa apprensione da parte di mia madre. Con una punta di delusione da parte di mio padre muratore, che vedendo la mia propensione per gli studi forse inizialmente sperava in una mia diversa scelta professionale. In generale, mi sembra però che tutto sia avvenuto con naturalezza e in un clima di grande rispetto e libertà. Al liceo di Bellinzona tutti i miei compagni sapevano del mio proposito, ma non ho mai avuto nessuna difficoltà per questo, né con i docenti né con i compagni. Del resto, dalla mia classe sono usciti due preti e una suora!»

Quali emozioni ricorda della sua ordinazione?

«L’ordinazione presbiterale e la prima celebrazione dell’Eucaristia a Dongio sono stati due momenti di pura grazia, impressi nella mia memoria come un tempo di luce cristallina e senza incrinature. Tutto è stato semplicemente perfetto, come se mi venisse consegnato in una volta sola un patrimonio a cui attingere costantemente per il seguito. Ricordo con commozione la bellissima festa popolare, per il paese e per la valle, organizzata dal compianto P. Massimino Rizzo, parroco di Dongio, il cui fuoco interiore è stato per me determinante, negli anni della formazione, ma anche in seguito».

Come è cambiato secondo lei il modo di vivere il sacerdozio in questi ultimi tre decenni?

«Per quanto mi riguarda, posso dire che è cambiato tutto e insieme non è cambiato niente. Nel tempo, sono maturate in me motivazioni che all’inizio forse erano presenti nel mio cuore solo in modo molto implicito e nascosto. In fondo, quasi nulla è andato come mi sarei immaginato. Eppure, più avanzo e più cresce in me la percezione profonda della fedeltà indefettibile del Signore alle sue promesse. Pensavo di essere destinato a servire il Signore e la Chiesa attraverso lo studio, la ricerca, l’insegnamento e l’accompagnamento spirituale, in una vita molto meno pubblica ed esposta di quella del Vescovo. Eppure, mai ho avuto la percezione di essermi ingannato. C’è sempre stata in me una grande curiosità e un immenso stupore per come Dio agisce nel cuore di ogni essere umano, per come il Vangelo di Gesù Cristo «accade» in ogni singola esistenza, determinando novità e bellezza, anche dove si prevedeva ragionevolmente il peggio. Forse, essere prete alla radice è solo questo: essere chiamati a dedicarsi a «vedere» la grazia di Dio all’opera nella storia, come fa Barnaba ad Antiochia (cf. At 11,23), e incoraggiare ciascuno a esservi fedele».

Quale è il ricordo più bello di questi 30 anni?

«Ciò che trasforma un momento qualsiasi nel ricordo più bello è per me l’apparire della gioia sul volto di chi mi sta davanti. Questo rende praticamente impossibile indicare un episodio privilegiato. Vedo con riconoscenza la luce sul volto dei miei genitori, umilmente fieri del nostro cammino di figli. Penso a numerose circostanze di festa di popolo, che hanno rinnovato in tanti il senso dell’appartenenza alla Chiesa che è a Lugano, come la riapertura della Cattedrale. Non riesco, però, a essere davvero selettivo. Gli eventi preziosi sono tanti, ma quelli che lo sono più di tutti rimangono segreti e finalmente indicibili!»

E invece il più doloroso?

«Umanamente, i lutti di famiglia. Il distacco da mio padre e da mia madre. L’accorgersi a un dato punto che occorre imparare a guidare l’auto della vita senza poter contare sull’aiuto di quelle persone che fino a quel momento ti avevano fatto da specchietto retrovisore, dandoti orientamento e sicurezza. Alla fine, per tutti, i dolori più intensi sono quelli legati agli affetti, alle relazioni più vitali, al corpo».

Guardiamo al futuro: ha annunciato l’intenzione di iniziare la visita pastorale. Ci può dire qualcosa a riguardo?

«Tra settembre e ottobre comincerò questa avventura dalla Valle Maggia. Non seguirò un ordine sistematico, ma un’esigenza che mi sembra dettata dall’evoluzione registrata dalle parti meno accessibili del nostro territorio diocesano e più bisognose di attenzione pastorale, vista anche la diminuzione delle nostre forze. Vorrei una visita all’insegna della semplicità e dell’ordinario della vita delle nostre parrocchie, dando il più possibile a preti e a laici la possibilità di raccontarmi il loro vissuto, le loro preoccupazioni e le loro speranze. Il mio proposito è quello di far capire a tutti che la «porta» di cui Gesù ci parla nel Vangelo è certamente «stretta», ma in nessun caso è da considerare chiusa»!

Quali sono le sue priorità per l’imminente nuovo anno pastorale e per i prossimi anni?

«Due parole! La prima è un po’ difficile, ma cerco di spiegarla nell’ultima lettera pastorale: «mistagogia», che significa arte di iniziare al mistero cristiano, fiducia incrollabile, da coltivare a ogni livello. Dalla superficie delle parole e dei gesti della Scrittura, dell’Eucaristia e dei Sacramenti, possiamo anche oggi, nonostante tutte le nostre contraddizioni, attingere al cuore di una Presenza viva, di un incontro trasformante, di una fedeltà invincibile e amante. La seconda è «vocazione». C’è un’urgenza di tornare a riflettere sulla capacità della nostra realtà ecclesiale, non solo a generare alla fede attraverso il battesimo, ma anche a essere grembo fecondo e nutriente per far maturare le persone in scelte di vita consapevoli, nel matrimonio, nella vita consacrata, nel ministero ordinato, nei diversi servizi ecclesiali in cui i battezzati possono esprimere i loro doni. Riconoscere di essere diminuiti numericamente non deve assolutamente indurre i cristiani a pensare di avere più ragioni per ritirarsi in disparte, conservare quel poco che resta e vivere di meno! A tenere insieme queste due parole potrebbe essere una terza, che pure ho segnalato nella mia ultima lettera: «umiltà». È una bellissima parola cristiana: deriva da «humus», che è la terra di cui siamo fatti ed è il vestito che Dio ha assunto in Cristo per dirci la parola irrevocabile del Suo amore infinito. È la chiave per abitare consapevolmente il nostro tempo, senza rinunciare al desiderio di pienezza del nostro cuore umano».

 

Federico Anzini

Chiesa cattolica svizzera

https://www.catt.ch/newsi/anniversario-il-vescovo-valerio-a-30-anni-dalla-sua-ordinazione-sacerdotale/