Commento al Vangelo. XVIII Domenica del Tempo Ordinario

Calendario romano: Luca 12,13-21.

La Provvidenza: invito alla condivisione

Quale sicurezza cerchiamo? Ci troviamo in un paese iper-assicurato, casa, auto, furto, danni della natura, sulla vita. La garanzia di non perdere nulla dal punto di vista economico anche nelle peggiore delle disgrazie ci dona una certa sicurezza. Ma «la sua vita non dipende da ciò che egli possiede» ci ricorda Gesù. La sicurezza non può fondarsi sui beni materiali ma solo sull’amore del Padre. Il Vangelo proposto dalla liturgia di oggi deve essere letto assieme al brano successivo (Lc 12,22-34) che lo completa e mostra la provvidenza vivificante contrapposta al mortifero accumulo di beni della parabola qui proposta. A Gesù viene proposto il caso di due fratelli che vogliono dividere l’eredità. Il dono del padre smette così di essere ciò che unisce e si trasforma in ciò che divide, i beni non con-divisi restano solo divisi e separano. Gesù si rifiuta di farsi giudice della divisione di eredità, lui stesso non è venuto a dividere qualcosa ma a donare tutto sé stesso e unirci così al Padre, la sua eredità non può essere divisa ma solo condivisa unendoci così al Padre. Il «divisore» che spezza i legami e mette contrapposizione e confusione è un altro. Da lui viene il desiderio di accumulare, per la paura della morte, per la ricerca di una sicurezza che è incapace di coinvolgere l’altro ma si rinchiude in sé stessa e rinchiude anche i beni in granai sempre più grandi ma sigillati, irraggiungibili, esclusivi. Non è saggio, non è salutare fare dipendere la vita da ciò che si possiede, il rapporto si inverte facilmente, ciò che si è accumulato come garanzia di vita diventa causa di morte. L’ingrandimento dei granai non è progetto di Dio ma della supponenza dell’uomo, e con l’aumento del contenitore aumenta anche il desiderio in una spirale mai finita. L’uso dei beni è importante nel Vangelo, soprattutto nella redazione di Luca, non vanno né adorati né demonizzati, ma usati secondo la loro stessa natura di dono. «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante», i frutti della terra sono benedizione di Dio, chi li riceve come dono è benedetto lui stesso, chi li prende come possesso ne nega l’origine e li rende maledetti. Riceverli come dono significa usarli come espressione dell’amore del Padre, condividerli perché solo così si moltiplicano e rendono possibile per tutti la vita. «Riposa, mangia, bevi e divertiti» sono espressioni della bellezza della vita umana, possibili per tutti se i beni sono condivisi, si trasformano in maledizione e morte se pretesi e ottenuti solo per sé con il possesso e l’accumulo. Solo la condivisione rende possibile l’unico accumulo buono, il tesoro in cielo di cui Gesù parlerà al versetto 34, inesauribile, inattaccabile da ladri e ruggine, al quale legare veramente e profondamente il cuore.

don Marco Notari

Calendario ambrosiano: Matteo 22,15-22

Dare a Dio quel che è di Dio

L’evangelo odierno è l’unica pagina che è in qualche modo rivolta alla politica cioè a quella attività che si fa carico della città, la polis appunto, la civile convivenza. L’Evangelo, infatti, è anzitutto parola rivolta all’uomo, alla donna e alla loro coscienza prima che alla società e ai rapporti politici. Con la prima parte della sua risposta Gesù riconosce lo spazio legittimo della politica. E questo non era allora ma non è anche oggi sempre riconosciuto. Nella comunità cristiana delle origini serpeggiava, probabilmente, una sorta di anarchia di natura religiosa. Il primato di Dio, la sua sovranità induceva in qualche caso una minore considerazione per l’autorità politica. È significativo il richiamo, ripetuto, nelle lettere di Paolo, al rispetto per l’autorità costituita, anzi la preghiera per i governanti come leggiamo nella seconda lettura di oggi (1Tim 2,1s.). Dare a Cesare quel che è di Cesare, e Cesare è l’imperatore romano che occupava con il suo esercito la terra di Gesù, vuol dire riconoscere la legittima autonomia della politica e contrastare la tentazione da parte delle religioni, delle Chiese, di invadere lo spazio della politica. Questa invasione ha un nome: teocrazia, ovvero governi da parte di Dio, naturalmente per mezzo di una Chiesa o religione. Non sono mancate forme di organizzazione della convivenza civile, guidate, controllate dall’autorità religiosa. Si chiama laicità il rispetto della autonomia della politica che il Concilio ha chiaramente ribadito: «La Chiesa, che in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica non è legata ad alcun sistema politico. La comunità politica e le Chiesa sono indipendenti e autonome l’una dall’altra nel proprio campo » (Gaudium et spes, 76). Ma dopo aver affermato il valore della politica Gesù ne riconosce il limite, affermando: «date a Dio quel che è di Dio». Come dire: la politica non è tutto, non deve invadere l’intera esistenza delle persone e non è il valore supremo: decisivo è lo spazio della coscienza dove l’uomo compie le sue scelte. Il secolo appena trascorso ha conosciuto stagioni terribili di dittatura, di statalismo, forme di una politica che non riconosceva i propri limiti. Dare a Dio quel che è di Dio significa riconoscerne il primato: dobbiamo obbedire prima a Dio e alla sua legge piuttosto che agli uomini e alle loro leggi. Le leggi sono opera degli uomini, spesso frutto di maggioranze che vogliono soprattutto tutelare i loro interessi piuttosto che il bene comune. Leggi così fatte possono, anzi debbono esser cambiate secondo metodi democratici. Con altre parole: solo davanti a Dio e alla sua legge mi metterò in ginocchio, davanti agli altri uomini, anche ai politici più illustri e alle loro leggi, resterò rispettosamente in piedi, pronto a cambiarle con gli strumenti della democrazia.

don Giuseppe Grampa

Chiesa cattolica svizzera

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