«Dietro le grate la mia femminilità genera vita»

«Quelle grate che sembravano dover mortificare la mia femminilità, credo l’abbiano invece custodita e resa feconda, perché capace di accoglienza e donazione incondizionate. Paradosso possibile solo al Signore: giardino chiuso, ma che appartiene a tutti; fontana sigillata che tuttavia trabocca di Vita nel cuore nascosto della Chiesa».  Nel clima delle Giornate mondiali della Gioventù andiamo a guardare dietro le grate di un monastero. Lo facciamo attraverso la testimonianza di una giovane monaca carmelitana,  pubblicata nel libro «Inatteso», un volume molto ticinese che raccoglie storie di giovani che ad un certo punto del loro cammino umano hanno sentito il desiderio di leggere la vita nella prospettiva di un possibile progetto divino. Lei, la nostra monaca carmelitana che desidera non pubblicare il suo nome (a noi noto), in sintonia con la sua speciale vocazione di rinunciare a ogni gloria umana, a qualsiasi riconoscimento o apprezzamento in questo nostro mondo, questa intuizione del mistero di Dio che le chiedeva una scelta particolare, l’ha avuta negli anni dell’università, dentro la vita di una ragazza come tante altre, con il fidanzato e con la laurea in tasca.

Tu sei arrivata alla fede a partire da una delusione affettiva. Cosa avvenne?

Nel Vangelo di Giovanni si annota, della chiamata dei primi discepoli di Gesù, che erano circa le quattro del pomeriggio. Io, di quel primo incontro con il Signore, la Domenica delle Palme del 1999, non ricordo solo l’ora, ma anche il vestito che indossavo e l’angolo della Chiesa che occupavo. Ero rimasta in piedi, in fondo, come chi non si sente a proprio agio, quasi fuori posto. In effetti, quello era semplicemente il primo luogo in cui mi ero imbattuta uscendo di casa, senz’altra motivazione al di fuori dell’irresistibile ed inspiegabile impulso con il quale mi ero levata dal letto: cercare una Chiesa ed entrarvi. Non frequentavo più la Messa né qualsiasi altro ambiente religioso da anni, da quando avevo deciso che lo studio era l’affare più importante della mia vita, per il quale valeva la pena sacrificare tutto. Terminato il liceo, avevo lasciato famiglia, paese ed amici per trasferirmi in città, iscrivermi all’università e studiare medicina. Eppure quella mattina ero lì, con il cuore appesantito da una tristezza infinita a motivo di una grossa delusione affettiva. Mi sentivo ferita, mortificata nella mia dignità di donna. Allora, mi dicevo piuttosto ingenuamente, non ci si può proprio fidare di nessuno, perché dell’amore di nessuno potremo mai essere sicuri. Mi chiedevo che senso avesse vivere così, senza speranza in un amore certo e fidato. Finché, alla proclamazione del Vangelo della Passione, compresi in maniera inequivocabile che quella morte in Croce di Gesù era avvenuta proprio per me. Come lo compresi non saprei spiegarlo, ma quando leggo, negli Atti degli apostoli, di quei tali che, alle parole di Pietro, si sentirono trafiggere il cuore, mi sembra di capire bene che cosa significhi. Mi sciolsi in un pianto inarrestabile, in cui il dolore si mescolava alla gioia. Dolore per il male a cui sentivo di prestare corpo, ma anche gioia per la percezione e la certezza intima di un Amore redentivo, di riscatto, che mi veniva offerto gratuitamente.

Cosa avvenne dopo quel «primo» incontro?

Non fui più la stessa. Impossibile tornare indietro. Ma chi era questo Dio, e chi io per Lui? Fu per me come chi comincia ad apprendere una lingua nuova, e si cimenta con la lettura e la scrittura di un nuovo alfabeto.

Nel concreto,  hai raccontato di aver «scoperto la Grazia». Come?

Decisi di confessarmi, per la prima volta dopo tanti anni di lontananza dalla Chiesa e dai sacramenti. Mi si aprì davanti l’entusiasmante panorama della vita interiore, tutto un mondo da esplorare, conoscere e vivere! D’altronde, non tutto mi risultava immediatamente comprensibile e lineare. Facevo l’esperienza delle mie proprie contraddizioni interiori, del sapere quello che era giusto e buono e del non riuscire istantaneamente a realizzarlo con successo.

Come vivevi in quegli anni questo per te nuovo percorso di fede?

Avevo stretto un’amicizia particolare con un ragazzo, che tentavo di coinvolgere nella mia «travagliata vita interiore». Di fatto, mi voleva molto bene, ma il mio modo di vivere la fede proprio non riusciva a comprenderlo, e credo non fosse neanche veramente disposto a condividerlo. Pensava a Dio come ad un suo rivale in amore, perché aveva l’impressione che qualcosa di me gli sfuggisse, che non potesse afferrarmi completamente, come se io appartenessi a Qualcun altro. Il suo disappunto era anche il mio disagio. E l’uno e l’altro crescevano man mano che il mio rapporto con Dio si intensificava. Trascorrevo sempre più spesso del tempo in Chiesa; mi sentivo a casa, accolta come in nessun altro luogo prima di allora avevo sperimentato, mi piaceva starmene seduta lì, fra i banchi, a raccontare tutto di me al Signore. Con Lui le cose vecchie diventavano nuove, e quelle nuove non incutevano timore. Se posso ricordare i miei anni universitari come i più felici della mia giovinezza, è perché il Signore li ha resi tali. Concretamente, rendendomi la gioia in tutto, come se ogni cosa fosse stata pensata dal Padre, perché io ne godessi pienamente. E il Suo più bel dono, che tutti li racchiude, era proprio quel Figlio della cui compagnia non potevo più fare a meno.

Il tuo primo incontro con un monastero, con quelle «grate» dietro le quali ormai sei da 12 anni, come è accaduto?

Trovai per caso, in uno scaffale di una libreria di casa, un vecchio libro che avevo ricevuto in regalo molti anni prima e che non avevo mai letto, la Storia di un’anima di Santa Teresa di Gesù Bambino, nella quale ritrovai tutto l’essenziale della mia relazione con Dio. Da «quell’anima» mi sentivo compresa e afferrata perfettamente e la scelsi come «Sorella spirituale», sentendomela sempre vicina. Intanto, il rapporto con il mio ragazzo si era irreversibilmente incrinato e decidemmo di lasciarci, perché – era evidente – quella relazione non rendeva felice nessuno dei due. Io ci soffrii molto. Separarmi da lui andò ad aggravare quel vago ed inspiegabile senso di inappagamento che mi tormentava da un po’: ogni cosa mi era indifferente, di niente riuscivo ad essere pienamente soddisfatta, nonostante godessi di tutto ciò che una ragazza della mia età potesse desiderare, dalle gratificazioni affettive a quelle professionali. Ne parlai con il mio direttore spirituale, e decidemmo che mi avrebbe giovato una settimana di solitudine e preghiera nella foresteria di un Monastero, giusto per recuperare le energie psicofisiche logorate dallo stress. Acconsentii, precisando: «Però suora mai!». Mi procurò l’indirizzo di un Monastero carmelitano, e la proposta mi piacque, perché mi ricordai di santa Teresa di Gesù Bambino, benché non avessi mai visto una carmelitana nemmeno in foto, né fossi mai stata in un Monastero di clausura. Scelsi di andarci dopo la sessione estiva di esami, ed anche quel giorno appartiene per me agli appuntamenti fissati da tutta un’eternità… Almeno, questa è stata la certezza interiore che ho avuto quando mi sono ritrovata nell’ingresso spoglio del Monastero, dinanzi alla nuda Croce di legno: che Gesù mi aspettava lì da sempre.

Durante quella settimana in Monastero si può dire che hai seriamente messo le basi per una scelta definitiva. Poi hai trascorso altri due anni di studi universitari prima della laurea in medicina. Alla fine hai preso la decisione di entrare in Monastero, ma c’è stata la reazione della tua famiglia…

Dopo la laurea mi fu chiesto di temporeggiare ancora qualche mese per il tirocinio e l’esame di abilitazione, ulteriore tempo prezioso che sarebbe servito per comunicare la mia decisione in famiglia e «patirne» le prevedibili conseguenze. Infatti, la reazione fu drastica da parte di tutti, e furono per me giorni di sofferenza indicibile. Per farli stare tranquilli acconsentii persino ad una visita psichiatrica, certa che non avevo nulla da temere, se ero nella verità, come pensavo. Tentarono in tutti i modi di farmi cambiare idea, ma io rimanevo ferma nel mio proposito, nonostante le parole provocatorie ed offensive che mi venissero urlate. Pensavo a Gesù che si dirigeva risolutamente verso Gerusalemme, ed anch’io «indurivo il volto» come Lui. Mi straziava il cuore vedere i miei cari soffrire, ma non riuscivo a rifiutare al Signore la risposta libera a quel progetto di pienezza che, fosse pure solo intuito, tuttavia non potevo ignorare. Come estremo tentativo di dissuasione, mi dissero che, se fossi entrata in Monastero, non li avrei mai più rivisti. Li salutai perciò come se dovesse essere l’ultima volta, con la speranza certa che il Signore avrebbe avuto un progetto di grazia anche per loro… sentivo che quella vocazione non era per me sola. E tuttavia, in quell’istante, dovetti sembrare loro la figlia e la sorella più crudele che potesse esserci al mondo.

Ed oggi, dopo 12 anni da quei giorni, come va?

Il Signore ha davvero realizzato quello che mi aveva fatto sperare: ogni rapporto è stato recuperato e reso più autentico, sia con i miei familiari che con i miei amici. Gli affetti che temevo di lasciare per sempre mi sono stati restituiti in una maniera tale da superare ogni mia possibile aspettativa. La distanza e il silenzio, invece che raffreddare, hanno rafforzato le vere amicizie, e il Signore ha conferito a questi legami tutta la preziosità della Sua benedizione, dimostrandoci che ci si ama veramente soltanto in Lui.

Cosa dà il Carmelo al tuo essere donna?

Quelle grate che sembravano dover mortificare la mia femminilità, credo l’abbiano invece custodita e resa feconda, perché capace di accoglienza e donazione incondizionate. Paradosso possibile solo al Signore: giardino chiuso, ma che appartiene a tutti; fontana sigillata che tuttavia trabocca di Vita nel cuore nascosto della Chiesa.

Intervista tratta dal libro :  »Inatteso. Testimonianze che pro-vocano i giovani», di Arturo Cattaneo con Alessandro Cristofari e Cristina Vonzun, prefazione di monsignor Rino Fisichella – La Fontana di Siloe, pp. 328, 22 euro 

Chiesa cattolica svizzera

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