Benedetta sia la vita

Benedetta sia la gentilezza, benedetto lo stupore,

benedetta la verità, se la verità è dolore,

Benedetto sia l’incanto, benedetta l’espiazione,

Benedetta la complicità che unisce le persone.

Questa settimana ho voluto iniziare così, trascrivendo il ritornello di una canzone che da giorni ascolto molto, si tratta di «il Santo» scritta da Federico Sirianni. Riflettendo sul testo sono arrivata alla conclusione che mai come di questi tempi – confusi e avversi- avremmo davvero bisogno di un Santo (ma uno vero, con la maiuscola – e non soltanto per questione di credibilità) come di una ragione. Una ragione che non faccia giocare alla vita.

Dunque mi sono domandata se sia fondamentale rivolgerci al lato spirituale, a quello che i preti e i mistici definiscono trascendentale – religioso e mistico – per trovarlo, o non esista una terza via, che escluda quella di negare tutto, sempre e comunque.

E per me, c’é.

Si tratta di un mosaico dai tasselli davvero taglienti – piccole e grandi realtà troppo spesso difficili da digerire – che rendono il Tutto faticoso, accidentato, imperfetto e provvisorio, ma proprio grazie a questa loro questa capacità di scomporre la vita in piccolissimi dettagli, li impreziosiscono e valorizzano.

Credo infatti sia normale non smettere mai di cercare risposte sul tempo che passa, su ciò che regola i rapporti tra persone o sui nostri problemi in generale, ma nel farlo dovremmo usare il filtro di uno sguardo acuto e sensibile, per intravedere nel futuro la Ragione, che io spero nascerà da una bocca giovane, un bambino nuovo, una stretta di mano tra amici e la comprensione verso chi soffre. Perché in tutto questo c’è qualcosa di laicamente Sacro, che fa inginocchiare anche chi va in chiesa solo quando è vuota. Sento che nel benedire ciò che è semplice, che si trova passione ed equilibrio: una lode ai valori che sono di ognuno pur essendo di ciascuno.

Non dovremmo mai dimenticare una legge fondamentale: che se da un lato l’esperienza insegna, dall’altro spesso segna. Ed imparare a leggere tra le righe non deve essere solo abilità di chi le scrive.

Per quanto mi riguarda non è nel cancellare o nell’elogiare che trovo purezza, ma nella capacità di «diventare abitabile» del nostro spazio più cristallino e profondo. Scavando, riadattando, ricominciando, spezzando, riattaccando, cambiando pelle sempre. Ancora una volta. Dando a noi stessi uno spazio di cura. Che spesso è un lusso. Perché persino quando qualcuno sembra una roccia, a cui è facile ancorarsi, corre il rischio di rompersi.

 Io ho sempre saputo di essere gracile, di una gracilità che però aiuta a vivere. Che mi ha permesso di capire come fare a non ferire, a rispettare, a non manipolare, a non falsificare. E posso dire che se ciò che è fragile con pazienza si ricompone, la forza che scoppia con potenza mi fa paura, perché credo che riduca l’uomo in frammenti -ma di polvere – e la polvere si nasconde troppo spesso sotto il tappeto.

E ciò che non si vuol vedere ,porta spesso all’insanità.

Perché non è semplicistico dire che noi siamo quello che abbiamo vissuto, la conseguenza della vita che abbiamo scelto – o subito – prima di oggi. Che l’oggi sia figlio di ieri.

Da adolescente credevo fosse bello vivere senza guardarsi mai indietro, senza pensare, cicaleggiando; vivere con superficialità, lontani da ogni questione rilevante della vita. Guardavo con un sorriso chi, come unico scopo aveva il benessere materiale: una borsa griffata, le vacanze al mare, un fidanzato con vestiti su misura.

Mi sentivo quasi male: io sempre tesa, introspettiva, rompipalle. Gli altri cosi leggeri, svampiti, incoscienti, un sorriso – sempre sempre sempre – per tutti.

Solo negli anni ho capito quanto sia importante capire dove abbiamo sbagliato, a cosa abbiamo rinunciato, a cosa siamo scampati. Perché la vita può essere bastarda e prima o poi ti presenta il conto, e spesso è salatissimo.

Come per chi si ritrova in una rete troppo fragile per resistere alle esperienze non elaborate e allora cade giù, in quella terra di nessuno in cui nessuno può arrivare e purtroppo nessuno ti tende la mano.

In cui c’è chi si scaglia contro le persone, chi urla, chi si taglia, in cui imprechi contro il mondo. E non ci si lava, si piange di pianti inconsolabili per i quali è davvero impossibile spiegare perché. In cui si annaspa come se si fosse veggenti delle proprie ossessioni e prigionieri di voci immaginarie. In cui non si è più nel mondo di chi ragiona, di chi fa progetti, di chi ha aspirazioni.

Ed è quanto ci si rende conto quanto sia straziante la sconfitta che si apprezza la propria fortuna.

Perché là vi è solo il campanello che scandisce il tempo, come se qualcuno vorrebbe sempre entrare. In quegli ospedali spesso non vi è distinzione tra giorno o notte, reale o meno, opportuno o irragionevole.

Si tratta di stanze bianche in cui si sente davvero tanto il disinfettante, senza vasi sul comodino, senza portaombrelli ,libri o finestre aperte. In cui ti capita di abbracciare pigiama immensi e mani dalla stretta vaga .In cui senti il respiro di sussurri all’orecchio, in cui le parole sono preda di una logorrea ottusa, le dita si intrecciano fortissimo tra loro, e lo sguardo si inchioda dove tu non vedi nulla.

Tutto si arresta e tutto ricomincia, freneticamente.

In cui se chiedi «come stai?» ti senti rispondere : «di merda, non ci arrivi?» In cui è tutto un «mi stanno uccidendo, voglio uscire, vaffanculo» e negazione a ripetizione.

In cui tutti credono di aver perso l’equilibrio che avevano fuori, ma non sarebbero lì, se così fosse. In cui vedi persone che spesso scrivono per non perdere pezzi, per non perdersi. E quando chiedi a cosa si aggrappano le risposte ti fanno piangere la lacrime vere :»il viso di mio padre ,il sorriso di mia madre, le gite, il Natale, le sere in salotto di quando ero piccola»

E tu pensi che sono ricordi belli, che fanno bene. E pensi che adesso qualunque demone stiano combattendo, devono solo fidarsi.

Perché non è vero che «se ne sbattono, andrà tutto male, comunque»

Ma poi alzano un muro. E quando succede ci si sente inutili, in termini così pratici da far paura. E capisci che a volte, non è importante capire.

Ma solo tentare di aprire spiragli, e costruire ponti con tasselli a mosaico taglienti. Che sanno di vita. Di realtà. Di aprire percezioni in cui si possa ancorare lo sguardo, oltre la deriva del proprio pensiero.

Al di là di noi.

Ci si riesce, a volte no.

Forse per questo, la rabbia del non riuscirci ,a differenza di altri sentimenti non è questione di fiducia, ma è altamente democratica, brucia tutto.

E si trasforma in preghiera laicale, quando la vera santità, la vera terza via, la impari attraverso,  e con il corpo. Come un qualcosa che si è girato sottopelle. Ed è aguzzo. Che apre una crepa, che si espande. Un panico emotivo, veloce, come il lampo, ma che colma. E tracima.

Per questo io cercherò ciò che è Divino, nella certezza di non potermi impedire di sentire tutto. E nel «male-benefico» di questo ascolto.

Perché non esiste normalità che sia veramente tale.

Tutto è sbalordimento.

 

 

Chiesa cattolica svizzera

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