Vicenda delle suore americane, ancora una volta l’effetto Francesco

di MARIA TERESA PONTARA PEDERIVA

Un’autentica sorpresa: non solo per i tempi, che nessuno si aspettava così ravvicinati, ma soprattutto per i toni che qualcuno definisce «straordinariamente concilianti».

 

Sono più che positive, pur nella varietà di sfumature, le reazioni del mondo cattolico, in particolare, ma non solo, americano, alla notizia della conclusione della vicenda che vedeva contrapposte le superiore maggiori delle religiose statunitensi aderenti alla Lcwr e la Congregazione vaticana per la Dottrina: «Le nubi temporalesche sono definitivamente scomparse» sintetizza Ann Carey. Sulla stessa lunghezza d’onda, prima voce di religiosa, suor Joan Chittister che ha definito l’accordo «assai civile e dai toni equilibrati», sottolineando con soddisfazione come la Lcwr abbia così mantenuto la propria autonomia.

 

La maggior parte dei media – pubblicando la foto dell’incontro privato di 50 minuti fra le suore delegate e papa Francesco – prende le mosse da quell’espressione della presidente Lcwr, suor Sharon Holland, che pur non essendo stata presente alla conferenza stampa in Vaticano, aveva dichiarato: «Abbiamo scoperto che è più quello che ci unisce di ciò che ci divide». Ed è proprio a sr. Holland, esperta di diritto canonico, per 21 anni in servizio presso la Congregazione vaticana per la Vita consacrata, che viene attribuito il merito di un dialogo efficace e mediazione vincente. Ma non di dimentica il ruolo dell’arcivescovo di Seattle, James Peter Sartain, alla guida della commissione incaricata dal Vaticano: un binomio che alla lunga ha prodotto i frutti sperati, forse ben oltre le aspettative, ma che stava comunque già «scritta nelle stelle» aggiunge qualcuno. Perché, dietro le quinte, si immagina la vigile attenzione di Bergoglio, il papa del Giubileo della Misericordia che ben conosce le problematiche dei rapporti tra religiosi e Chiesa istituzionale (ne sono straconvinti i suoi confratelli per voce di Francis Clooney sj dell’Harvard Divinity School).

 

Uno dei commenti che non nasconde la sua soddisfazione è quello del gesuita-giornalista di America, padre James Martin, che in questi tre anni aveva speso energie in difesa delle consorelle di cui ben conosceva il servizio confutando anche quella notizia secondo la quale le suore della Lcwr avrebbero un numero molto inferiore di vocazioni rispetto all’altra organizzazione di suore più «tradizionaliste» («dal 2009 a oggi, scriveva nel 2012 all’annuncio della valutazione vaticana, ci sono 73 postulanti o novizie sia tra le suore della Lcwr che tra quelle della Cmswr»).

 

«Thank you, Sisters» («Grazie, Sorelle»), il titolo dell’articolo, il primo oltreoceano. «La Lcwr continuerà, e sicuramente continuerà, a essere una voce potente nella Chiesa cattolica in questo Paese», perché tutto si gioca in quel «delicato equilibrio per i religiosi: la necessità di essere fedeli sia alla Chiesa istituzionale e contemporaneamente essere fedeli alla propria vocazione alla vita religiosa, oltre che agli specifici carismi dei fondatori».

 

E Martin, tra i sette motivi di soddisfazione, non trascura il dolore che la vicenda aveva arrecato alle consorelle più anziane, cadute nello sconforto per un mancato riconoscimento del servizio di un’intera vita a servizio dei più deboli.

 

Più distaccati, perché meno personalmente coinvolti, le analisi di altri commentatori che sottolineano come la vicenda fosse apparsa all’opinione pubblica quasi uno scontro hollywodiano tra i cattivi, maschilisti e retrogradi, della gerarchia della Chiesa e le buone esuberanti suore protese verso il futuro.

 

In pratica, come scrive il religioso britannico, fra Alexander Lucie-Smith, «alle suore è stata riconosciuta la patente di cattolicità, quasi la scoperta dell’acqua calda», perché non poteva essere altrimenti, anche se alcune posizioni avevano creato motivo di scandalo in alcuni settori ecclesiali. La scoperta che «ciò che unisce è più di quanto divide» sarebbe più consona a un incontro ecumenico, aggiunge Phil Lawler, eppure solo tre anni fa, visto il braccio di ferro, niente era dato per scontato.

 

Non mancano neppure quanti si aspettavano qualcosa di più, come alcuni organizzazioni tipo Call To Action o Advocacy Nuns (che parlano di «accuse grossolanamente ingiustificate»). L’agenzia cattolica austriaca ricorda i toni non proprio concilianti assunti solo un anno fa dal prefetto, il cardinale Gerhard Ludwig Müller, che aveva definito «una provocazione» il premio assegnato alla teologa Elizabeth Johnson, altri rimarcano come la vicenda si sia conclusa proprio alla vigilia della prima visita in Usa di papa Francesco nel prossimo autunno.

Molti sottolineano infine quanto si sarebbe forse potuto evitare (già il cardinale O’Malley, cappuccino, aveva definito la vicenda nel corso di un’intervista televisiva  «un autentico disastro») in particolare il mancato coinvolgimento dei vescovi americani.

 

«La posta in gioco era alta – conclude padre Martin – la vicenda ha interessato la vita della Chiesa e del popolo di Dio. L’indagine della Congregazione per la dottrina della Fede aveva risvolti che andavano ben oltre la Lcwr e le questioni legate alla vita religiosa, perché erano coinvolte questioni di coscienza e di fede che hanno un impatto, in modi diversi, in tutti gli ambiti della Chiesa. L’impegno per il dialogo, in particolare su questioni di questo tipo, è certamente difficile e richiede tempo, ma è con ogni probabilità una delle azioni più importanti che possiamo intraprendere in un momento in cui tutto il mondo è alle prese con una polarizzazione delle differenze, e quando la Chiesa sta cercando di andare oltre le proprie divisioni interne per rivolgersi alle periferie». Ancora una volta l’effetto Francesco.

Chiesa cattolica svizzera

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