Così l’arte ha raccontato san Giuseppe

Il 19 marzo, come ogni anno, la Chiesa festeggia san Giuseppe, l’uomo roccioso e pacato che con la propria vita ha custodito quella di Maria e di Gesù, i tesori preziosi che Dio gli ha affidato. L’uomo giusto che – ricordava Francesco nell’omelia della messa per l’inizio del suo pontificato, cinque anni fa – «vive nella costante attenzione a Dio, aperto ai suoi segni, disponibile al suo progetto, non tanto al proprio». Ed è custode «perché sa ascoltare Dio, si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge».

 

In questo dialogo con Vatican Insider monsignor Timothy Verdon – docente di storia dell’arte alla Stanford University e direttore del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze – propone e commenta alcune raffigurazioni che hanno segnato la storia dell’iconografia di Giuseppe.

 

In quale epoca la figura di Giuseppe inizia a suscitare un significativo interesse negli artisti?  

«Nei primi secoli di vita della Chiesa l’arte non riserva una particolare attenzione a questa figura. È nel Medioevo che nasce un vero interesse. Le notizie su Giuseppe – sia quelle presenti nei Vangeli canonici sia quelle contenute nei testi apocrifi – vanno a formare un retroterra di curiosità e informazioni che spiega diverse raffigurazioni di questo periodo come, ad esempio, la bellissima miniatura risalente alla prima metà dell’XI secolo eseguita da un monaco tedesco e oggi conservata in Spagna, all’Escorial: mostra Gesù nella mangiatoia, che è posta molto in alto, mentre sotto, sdraiata, vi è una giovanissima Maria: al centro, a proteggerla, quasi fosse lei stessa una bambina bisognosa di essere custodita, è ritratto Giuseppe che, come spesso accade, è un uomo anziano».

 

Per quali ragioni già nel Medioevo Giuseppe è sovente raffigurato come un uomo anziano e non di rado anche addormentato?  

«Gli artisti lo ritraggono nell’atto di dormire perché è l’uomo che riceve in sogno i comandi di Dio e anziano per evitare che il popolo possa giungere a conclusioni inappropriate, ossia che sia lui il vero padre del Salvatore. Preoccupati di non suscitare questa errata credenza, quasi sempre lo raffigurano anche fisicamente distante da Maria: fra i due non vi è alcun contatto fisico. Giuseppe viene presentato in margine all’evento di volta in volta illustrato per insistere sul carattere vicario dei suoi ruoli di «marito» e «padre».

 

Bisogna tenere presente che la storia dell’iconografia di Giuseppe dipende dal pensiero che la Chiesa nel corso della storia ha elaborato su di lui. L’epoca medioevale è affascinata dall’uomo che Dio ha voluto accanto a Maria. San Bernardo di Chiaravalle, ad esempio, pur concentrando la propria riflessione teologica sulla Madonna, è attento a Giuseppe e, indagandone l’umanità, lo descrive come il «prudente e fedele servo della Madonna», e come «nutritor Domini«, un titolo che resterà per secoli. Un altro teologo, nel XIII secolo, il francescano Pietro Olivi, si spinge a sostenere che Giuseppe, all’interno della Sacra Famiglia, rappresenta Dio Padre: ciò avrà grande importanza più tardi, come vedremo. Nel Trecento i frati Servi di Maria e i francescani decidono di istituire la festa di san Giuseppe, segno evidente dell’importanza che gli conferiscono. Questo progressivo aumento di interesse è dovuto sia allo sguardo nuovo che la Chiesa riserva alla famiglia e quindi alla figura paterna sia allo sviluppo della società borghese. Pregevole è un trittico dipinto intorno al 1425-30, oggi conservato al Metropolitan Museum of Art di New York, del pittore Robert Campin: al centro vi è l’Annunciazione mentre nelle due ante laterali compaiono, a sinistra i committenti, appartenenti alla borghesia degli affari, mentre a destra è ritratto Giuseppe, vestito come loro e seduto al tavolo di lavoro, nella sua falegnameria. Maria non poteva certo mancare, ma i committenti hanno voluto che fosse presente anche Giuseppe – l’uomo che lavora, che ha un mestiere come loro – perché è con lui che si identificano».

 

Quale avvenimento determina una svolta nella storia della raffigurazione di Giuseppe?  

«Questo personaggio acquisisce un crescente rilievo ai primi del XV secolo quando, nel contesto del Concilio di Costanza, il teologo Jean Gerson chiede ai padri conciliari di istituire una festa universale per san Giuseppe. Ma la vera svolta per la teologia, e di conseguenza per l’iconografia, risale al 1479 quando papa Sisto IV, il francescano Francesco della Rovere, istituisce per il calendario romano la festa di san Giuseppe. Da quel momento è tutto un fiorire di opere: per alcuni artisti Giuseppe diviene addirittura il personaggio preminente della Natività: penso ad esempio alla grande pala d’altare di Francesco di Giorgio conservata alla Pinacoteca di Siena: si vedono alcuni santi, gli angeli, Maria, che è un poco sulla destra di chi guarda, mentre in posizione centrale, proprio sopra il Bambino, vi è Giuseppe in veste di protettore e custode. Un’opera di grande potenza espressiva è la Natività di Sandro Botticelli, un tondo esposto all’Isabella Stewart Garden Museum di Boston. L’artista ritrae Maria in ginocchio, ancora una volta un poco sulla destra, che adora il Bambino. In primo piano è raffigurato Giuseppe, anch’egli in ginocchio, che sembra voler raccogliere Gesù, avvolto nel velo trasparente della Madre, un velo, quasi una placenta, che allude all’evento della nascita. Giuseppe, come fosse un anziano medico, pare quindi farlo venire al mondo, divenendone il protettore e il custode».

E poi vi è il Tondo Doni di Michelangelo.  

«Forse questa può essere considerata l’opera raffigurante Giuseppe più suggestiva dell’epoca (siamo ai primi del Cinquecento) e una assoluta e quasi scandalosa novità. Per il soggetto più diffuso dell’intero repertorio religioso, Maria, l’artista inventa una figura unica, un’atleta femminile con braccia muscolose e nude. Anche la figura di Giuseppe rappresenta una rottura con la tradizione precedente. Michelangelo lo presenta come vegliardo molto virile che con inaudita familiarità allarga le gambe intorno al corpo della Vergine: un’interpretazione senza precedenti. Michelangelo sembra dar credito al teologo Pietro Olivi: Giuseppe infatti qui rappresenta Dio Padre. L’opera illustra dunque l’incarnazione, il momento non temporale, ma morale e spirituale, in cui il Verbo eterno esce dal Padre per assumere carne umana nel corpo di una donna. In questo dipinto si manifesta una volontaria confusione tra il genitore terreno di Gesù e il Padre».

 

Quali altre opere di quest’epoca lei ritiene maggiormente significative?  

«Penso allo Sposalizio della Vergine, celebre tela di Raffaello conservata alla Pinacoteca di Brera di Milano. Forse meno nota è quella dedicata al medesimo tema e ora esposta al Musée des Beaux-Artes di Caen, in Francia, di cui è autore il Perugino, maestro di Raffaello. In entrambe le opere Giuseppe è in primo piano, nell’atto di mettere l’anello a dito di Maria: sullo sfondo vi è una piazza e una grande chiesa ottagonale la cui porta centrale, epicentro della composizione, è aperta. Il significato è preciso: se Giuseppe è il servo fedele che Dio ha posto come protettore di Maria e se Maria è figura della Chiesa allora Giuseppe è protettore della Chiesa: un titolo che non verrà mai meno. Vorrei menzionare un’altra opera molto interessante, anche se poco nota: situata all’interno del duomo di Udine, è una pala d’altare di notevoli dimensioni opera di un artista di scuola veneziana, Pellegrino da San Daniele: ritrae una grande figura di Giuseppe che, tutto solo, senza Maria, tiene in braccio Gesù: presentandolo come unico genitore il pittore gli conferisce una straordinaria rilevanza».

Un tema caro agli artisti dell’epoca è anche la fuga in Egitto.  

«Certamente. Penso a un’opera di Battista Dossi, oggi al Lowe Art Museum dell’università di Miami: Maria è su un asino, Giuseppe su un altro ed è proprio lui a portare Gesù. La Vergine si regge all’animale con una mano mentre con l’altra sembra dare istruzioni al marito, quasi a dirgli di stare attento al Bambino: è un dipinto delizioso. La fuga in Egitto diviene anche il tema di molte stampe che vengono prodotte a seguito della crescente devozione popolare a san Giuseppe, dovuta anche alla nascita di numerose confraternite e compagnie, soprattutto di artigiani, a lui dedicate. Cito un’opera del francese Cristoforo Blanco: mostra la Sacra Famiglia di ritorno dall’Egitto: Maria è sull’asino mentre Giuseppe cammina portando sulle spalle Gesù, il quale tiene le mani incrociate sulla fronte del suo papà, proprio come farebbe un qualunque bambino. Siamo alla soglia del barocco e quest’opera di grande realismo ci aiuta a cogliere una tendenza che va affermandosi: l’attenzione alla dimensione umana della Sacra Famiglia, una dimensione che l’umanità di Giuseppe contribuisce a far emergere».

 

Anche Caravaggio si è misurato con Giuseppe.  

«In questa nostra carrellata non possiamo dimenticare il suo Riposo durante la fuga in Egitto conservato alla Galleria Doria Pamphilj di Roma: Caravaggio ritrae una Maria bella e fine che si è addormentata dopo aver allattato il Bambino, assopito fra le sue braccia. Giuseppe, che invece pare un rustico, tiene in mano uno spartito che viene letto da un angelo intento a suonare la viola. Sul volto di Giuseppe si coglie lo stupore per la musica udita. Caravaggio esplora l’anima di quest’uomo semplice e buono che, obbedendo alle parole del Signore, decide di custodire Maria e il Bambino e che rimane incantato dai suoni celesti; un uomo dunque che sa ascoltare il Cielo.

 

Nei secoli successivi, il Settecento e l’Ottocento, gli artisti propongono temi e sviluppano riflessioni avviate nei secoli precedenti. Citerò, fra i molti, Murillo e la sua Sacra Famiglia oggi conservata alla National Gallery di Londra: in alto sono raffigurati il Padre e lo Spirito Santo e in basso Gesù con genitori: è chiara l’intenzione dell’artista di raccontare la Sacra Famiglia come espressione terrena, domestica della Santissima Trinità e Cristo come fulcro di entrambe».

 

Si può affermare che le raffigurazioni di Giuseppe hanno contribuito alla comprensione di Maria e della vita di Nazaret?  

«Certamente. Maria è un’immagine quasi intoccabile, una figura carica di significati codificati dalla tradizione che hanno vincolato gli artisti i quali hanno dunque faticato a comunicare la dimensione propriamente familiare dell’esistenza di questa donna e del tempo vissuto da Gesù in famiglia. L’arte si è servita di Giuseppe anche per consentirci di vedere Maria e la vita di Nazaret in una luce diversa».

 

Papa Francesco in più di un’occasione ha denunciato il «senso di orfanezza e perciò di grande vuoto e solitudine» che caratterizza la nostra cultura «frammentata e divisa». Questo senso di orfanezza, causato anche da uno smarrimento della virtù della custodia, da una rinuncia alla responsabilità dell’altro, può spiegare la scarsa attenzione che gli artisti contemporanei riservano a Giuseppe, che della custodia è maestro?  

«Sì, indubbiamente. Nelle nostre comunità si sta perdendo la dimensione della custodia, così mirabilmente vissuta da Giuseppe. Occorre rilevare che nell’arte contemporanea è riservata scarsa attenzione anche a Maria e al Bambino. Nell’Europa della denatalità e dell’individualismo autoreferenziale, l’immagine di una donna con un bambino sembra quasi politicamente scorretta, purtroppo».

Cristina Uguccioni – VaticanInsider

Chiesa cattolica svizzera

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