I barnabiti in Afghanistan, una testimonianza silenziosa in mezzo alla violenza

Il fragore dell’esplosione è un’eco lontana, ma porta con sè, già nell’immaginazione, il carico di dolore che poi si fa carne, quando la notizia dell’ennesimo attentato giunge in Ambasciata. È rinchiuso tra le quattro mura della rappresentanza diplomatica italiana a Kabul l’unico prete italiano che risiede in Afghanistan, ma soffre, prega e spera come se fosse ogni giorno in mezzo alla gente. Come è suo desiderio e come hanno fatto i missionari che lo hanno preceduto. Giovanni Scalese è il sacerdote dell’ordine dei barnabiti che vive nella capitale afgana, titolare della Missio sui iuris che la Santa Sede ha istituito nel 2002.

 

Confinato per motivi di sicurezza nell’area diplomatica, Scalese, nel silenzio della sua cappella, prega e affida a Dio le vittime degli ultimi attacchi terroristici suicidi: il massacro compiuto ieri, nel centro di Kabul, con un’ambulanza imbottita di esplosivo; quello al lussuoso Hotel Intercontinental di Kabul, frequentato dai giornalisti, imprenditori e cooperanti occidentali; e quello, altrettanto orribile, alla sede della Ong Save the Children a Jalalabad, nell’est del paese.

 

Non lo attanaglia, però, un senso di impotenza, anzi. Scalese è ben coscio di cosa significhi «tenere acceso un lumicino della fede» nel paese dei talebani: «La missione cattolica afgana – spiega – nei limiti imposti dalla situazione, tiene accesa la fiamma della speranza e della fede in un contesto, almeno apparentemente, impermeabile al Vangelo. Con le sue povere attività, rende una testimonianza evangelica, circoscritta ma significativa, di amore disinteressato per gli ultimi. Ma soprattutto, attraverso l’Eucaristia, rende realmente presente Cristo anche in questa remota regione dell’Asia centrale», osserva.

 

E, di fronte alla violenza bruta che insanguina la nazione, il barnabita continua «ad affidare a Dio la popolazione afgana e il futuro del paese, confidando che il Signore possa donare un tempo di pace e di riconciliazione». Nonostante tutto, non si rassegna alla violenza cieca e, come fa notare all’agenzia vaticana Fides, rileva che «l’Afghanistan è al centro di giochi di potere tra le grandi potenze regionali e mondiali».

 

I barnabiti sono in Afghanistan da oltre 80 anni. La loro presenza fu ammessa agli inizi del Novecento come semplice assistenza spirituale diplomatica e, dopo alterne vicende, fu poi elevata a Missio sui iuris nel 2002 da Giovanni Paolo II. Scalese è a a Kabul da tre anni, trascorsi nella prigione dorata del compound diplomatico. In passato non era così: i suoi confratelli hanno potuto svolgere un servizio pastorale ben più esteso e a contatto con la gente. Se i primi missionari Egidio Caspani ed Ernesto Cangnacci hanno girato l’Afghanistan in lungo e in largo, compilando una manuale sulla storia, la geografie e la cultura del paese, tuttora ritenuto un contributo prezioso per gli antropologi, anche solo  fino a vent’anni fa la situazione era ben diversa per i preti cattolici.

 

Scalese racconta: «Quando, subito dopo la caduta del regime talebano, fu eretta la Missio sui iuris, la condizione del resto del paese era piuttosto instabile, ma a Kabul risultava piuttosto tranquilla. Si poteva uscire liberamente e condurre una vita pressoché normale. Nel 2015, ho trovato invece una città in stato di assedio. E, dopo l’attentato del 31 maggio 2017 all’Ambasciata tedesca (che ha provocato circa 150 vittime, ndr), la «Green Zone», dove si trovano gli edifici del governo e le rappresentanze diplomatiche, è diventata una autentica fortezza: non è consigliabile uscire ed è ben difficile entrare».

 

«In questa particolare situazione, siamo obbligati a recuperare l’essenziale della vita cristiana, immersi in una popolazione a larga maggioranza islamica, vivendo una testimonianza evangelica senza ostentazioni, al di là delle guerre e degli attentati, riscoprendo l’autentica fede», spiega a Vatican Insider l’altro barnabita Giovanni Rizzi, professore ordinario di Teologia alla Pontificia Università Urbaniana e autore dei libri »80 anni in Afghanistan» e »I parroci di Kabul: dal re ai talebani», dedicati al resoconto degli 80 anni trascorsi dai suoi confratelli in terra afgana. Rizzi specifica: «La missione dei cattolici in Afghanistan è fatta quasi esclusivamente di testimonianza cristiana silenziosa. C’è divieto assoluto per i preti cristiani di svolgere attività di proselitismo verso la popolazione locale. Sono le azioni a donare il Vangelo. Ma preghiamo e speriamo perché in futuro, se Dio vorrà, si possa costruire una Chiesa».

 

I missionari sognano una Chiesa cattolica fuori dall’Ambasciata, per svolgere incontri di preghiera, catechesi e attività pastorali. Anni fa ci si era andati vicini. La prima proposta per la costruzione di una chiesa «pubblica» giunse alla Missio sui iuris nel 1992 quando un rappresentante del governo di Najibullah, l’ultimo filocomunista, sottopose al barnabita Giuseppe Moretti, allora titolare della MIssio sui iuris, il piano per edificare una chiesa, che includeva un piccolo compound, con tutte le garanzie di immunità. II progetto, però, restò lettera morta dati i repentini mutamenti nella situazione politica afgana, con lo scoppio del conflitto civile, la salita al potere dei talebani e poi la guerra del 2001.

 

In Afghanistan semi di Vangelo e segni di una presenza cristiana, sono anche le Suore di Madre Teresa di Calcutta e l’Associazione intercongregazionale «Pro Bambini di Kabul», attiva in ambito sociale. Fino al 2016 ci vivevano anche le Piccole Sorelle di Charles de Foucauld, arrivate in territorio afgano negli anni Cinquanta. In Afghanistan, dove l’islam è riconosciuto come religione di Stato e la conversione ad altre fedi può essere perseguita come reato di apostasia, azioni di promozione sociale rappresentano l’unica forma possibile di missione. In opere educative sono infatti impegnati, dal 2003, i gesuiti indiani del Jesuit Refugees Service, dopo l’ok del Ministro dell’educazione afgano.

 

La Costituzione del 2004 definisce l’Afghanistan una «Repubblica Islamica», mentre l’articolo 2 della Carta garantisce ai non musulmani «il diritto di esercitare liberamente la propria religione nei limiti delle leggi vigenti». L’articolo 3 subordina conformità di tutte le leggi ai principi della religione islamica, rendendo dunque la sharia principale fonte di diritto.

Paolo Affatato – VaticanInsider

Chiesa cattolica svizzera

https://www.catt.ch/newsi/barnabiti-afghanistan-testimonianza-silenziosa-mezzo-alla-violenza/