Intervista a monsignor Oscar Cantoni. Il Natale ci insegni la «cultura del donare»

Ripensando a questi dodici mesi così intensi del suo episcopato a Como quali sono i primi «verbi» che le vengono in mente?

«Mi vengono spontanei alcuni verbi con cui riassumere il mio stile di presenza nella Chiesa di Como. Il primo, non scontato, è certamente «pregare», perché la preghiera è il primo e il più importante compito di un vescovo, essendo il «grande intercessore» del suo popolo. Mi viene chiesto ripetutamente di pregare il Signore per le tante situazioni difficili che mi sono confidate, incontrando a tu per tu le persone, soprattutto nelle parrocchie, di domenica in domenica, nei momenti in cui saluto chi mi avvicina. C’è chi, in brevi attimi, mi confida la propria sofferenza per la perdita di una persona cara, chi mi parla delle difficoltà nel gestire la famiglia, in particolare i propri figli, che spesso hanno abbandonato la fede, chi chiede al Signore, attraverso di me, un supplemento di fiducia in Lui per poter dare un orientamento diverso alla propria vita. Il secondo verbo che interpreta il mio ministero può essere «condividere». Ho cercato di dare spazio a un «ministero di presenza» in tante realtà pastorali della diocesi, a partire dalle parrocchie, con l’intento di stringere legami di comunione, innanzitutto con i sacerdoti, che sono i primi miei collaboratori, con le persone consacrate, ma anche mostrando una vicinanza affettuosa e piena di stima verso i fedeli laici, per ascoltare le loro voci, a volte anche critiche, e incoraggiarli a mettere al servizio della Chiesa e della società i loro doni. Svolgo il mio ministero nella consapevolezza di dover stringere sempre più legami di comunione, promuovendo il tanto bene che registro nella nostra Chiesa, così che il terzo verbo che lascio frequentemente risuonare in me è «incoraggiare»: le tante persone impegnate nei diversi campi della evangelizzazione, il cui frutto è poi la carità, in modo speciale verso i più deboli e i più vulnerabili. Spesso mi capita di incoraggiare i giovani che frequentano i nostri oratori, o altri momenti di formazione alla preghiera e al volontariato, perché attraverso il loro entusiasmo possano essere essi stessi evangelizzatori gioiosi e convincenti dei loro coetanei. Incoraggiare è un modo di esercitare la misericordia, anche nei confronti degli anziani, che non possono essere considerati materiale «da scarto», ma segno e strumento della saggezza e della tenerezza di Dio».

In un anno di episcopato, lei ha avuto modo di essere presente in diversi punti della diocesi e in occasioni di­fferenti (ingressi dei parroci, incontri con le comunità, celebrazioni…): come definirebbe lo «stato di salute» della fede nella nostra Chiesa locale?

«La diocesi è molto vasta e le esperienze di fede non sono omogenee, ma differenziate. Sebbene la fede nel Signore Gesù sia radicata dappertutto, e consolidata da una storia che ha segnato positivamente il nostro territorio, i segni del secolarismo emergono con una certa evidenza un po’ ovunque. Tuttavia molti cristiani avvertono il bisogno di passare da una fede trasmessa per tradizione a una fede frutto di una scelta personale, che incida veramente nel modo di pensare, di interpretare l’esistenza, di rapportarsi con gli altri, una fede che sia attraente per il modo con cui è vissuta e condivisa. L’incontro con il Signore non può essere un fatto privato, ma espressione di una relazione maturata all’interno di una Comunità cristiana, in cui ci si aiuta a vicenda a vivere secondo il Vangelo e ad esprimere pubblicamente la propria fede, in modo tale che diventi una proposta positiva a servizio di tutti, anche dei non credenti, nella società sempre più «plurale», dove convivono diversi stili di vita, e dove, assieme a tanta indifferenza, coesistono religioni diverse. Non mancano, nella nostra Chiesa, tante espressioni di carità, ma è urgente che essa possa essere realizzata non solo da parte di qualcuno, ma come espressione di tutta la Chiesa, sempre più «in uscita», capace di raggiungere le numerose periferie, anche esistenziali, dove si incontrano sofferenze, solitudine e degrado umano».

Ci sono alcuni punti chiave che le stanno particolarmente a cuore: i sacerdoti, le famiglie e i giovani. Partiamo dai sacerdoti. Come sta costruendo il legame con loro (a partire da una conoscenza e da un’amicizia già consolidate)? Cosa è importante per aumentare il senso di fraternità?

«In questi mesi ho cercato di essere vicino il più possibile ai sacerdoti, perché essi sono il mio «primo prossimo». Cerco di introdurre i sacerdoti accompagnandoli personalmente nel nuovo campo del loro ministero. Mi pare questo un segno di vicinanza, in un momento molto importante della loro vita. Un compito prezioso di un vescovo consiste, infatti, nel prendersi cura come padre, fratello e amico di tutti i sacerdoti, senza dimenticare le necessità umane di ciascuno, soprattutto nei momenti più delicati del ministero e della vita personale, compresi i tempi di malattia, di fragilità e della vecchiaia. Mi piace ascoltare le proposte e i suggerimenti dei nostri preti giovani, espressi con libertà, condividere le fatiche e le gioie del ministero, le sofferenze e le speranze. Molti avvertono come un dono ogni volta che io posso far loro visita, anche se le distanze chilometriche sono notevoli e non sempre posso raggiungerli tempestivamente quando sono in situazioni particolari, come vorrei».

Le famiglie: c’è un lavoro complesso, a partire da Amoris Laetitia… Che cosa possiamo dire?

«Nella Chiesa le famiglie sono un dono prezioso. Esse costituiscono la risorsa centrale e insostituibile per la formazione delle singole persone e per la preparazione della futura società. Perciò alle famiglie occorre offrire un impegno prioritario e dedicare le migliori energie, perché non si sentano sole, ma siano sostenute dalle altre famiglie e dalla comunità cristiana, mediante una vicinanza carica di attenzioni e di cure. Anche nello svolgimento del prossimo Sinodo diocesano, alla famiglia sarà riservata un’attenzione particolare, per progettare un tempo di preparazione congruo al matrimonio cristiano, e favorire occasioni di accompagnamento delle famiglie, curando la compresenza delle diverse generazioni e il progressivo cammino di maturazione, di età in età. Nelle visite alle parrocchie incontro spesso numerosi casi di famiglie «in sofferenza»: per di­fficoltà nelle relazioni tra marito e moglie, per la lontananza affettiva dei padri, per l’ incapacità di dialogo tra genitori e figli, per problemi economici, di salute o di lavoro. La comunità cristiana deve mostrare viscere di misericordia verso questi nostri fratelli e sorelle, e proprio attraverso la disponibilità di altre famiglie, essere affettuosamente vicina a quanti richiedono un supplemento di speranza. Non è ancora entrato nella mentalità comune dei cristiani che il matrimonio cristiano è una vocazione e perciò richiede l’assunzione di una speciale responsabilità, che giunge fino al sacrificio di sé per il bene del proprio partner, della coppia stessa e dei figli».

I giovani. Venerdì, 1 dicembre, si è tenuta nella chiesa Collegiata di Sondrio la prima delle due catechesi diocesane che scandiscono i tempi forti (Avvento e Quaresima) nell’ambito di un cammino molto articolato. Cosa ne pensa dei «suoi» giovani? In cosa li sollecita e con quale spirito li sprona a guardare al futuro?

«I giovani che frequentano i nostri ambienti, purtroppo, sono sempre una esigua minoranza, rispetto alla totalità, e questo va premesso, ma se sapranno crescere nella dimensione missionaria, potranno diventare una luce che a­ffascina i loro coetanei, apparentemente estranei ai grandi interrogativi, ma, a loro modo, in ricerca di verità e di amore. I nostri sono ragazzi e giovani che, spesso sostenuti dalla loro famiglia e dalle comunità cristiane, scelgono di crescere illuminati dalla fede, attraverso varie proposte di formazione nella vita secondo lo Spirito. Ho incontrato in questi mesi diversi giovani che, confidando nel Signore Gesù, desiderano seguirlo come loro Maestro e Signore, fino ad assumere la sua stessa concezione di vita, attinta dal Vangelo, e si impegnano generosamente in vari campi di servizio nel volontariato, per esempio con la Caritas o presso le nostre missioni diocesane. Non mancano nemmeno giovani desiderosi di seguire Gesù: quest’anno otto giovani della nostra diocesi stanno frequentando il corso propedeutico, nel vicariato di Cernobbio, prima di entrare nel nostro Seminario. È una notizia consolante, di grande interesse, un segnale che testimonia la vitalità della nostra Chiesa, che aiuta a mettersi in ascolto del Signore, il quale chiama ancora i giovani di oggi. Ai giovani che incontro, ripeto spesso che sono essi stessi a doversi prendere cura dei loro coetanei, che hanno abbandonato la Chiesa dopo la Cresima o che dichiarano di non credere. Per questi giovani «apostoli di giovani» non si tratta certo di fare proselitismo, ma di vivere semplicemente il Vangelo con coerenza e di testimoniarlo come lo si vive, in modo tale che quando verrà loro richiesto il perché dell’ impegno e soprattutto della loro gioia, essi potranno spiegare con semplicità le motivazioni profonde che li animano, lasciando poi che sia lo Spirito Santo a generare la conversione nel cuore di ciascuno».

Non ci nascondiamo che stiamo vivendo giorni faticosi, per vicende che mettono in discussione la Chiesa e i suoi ministri: è anche il martirio della divisione, del pettegolezzo, della mormorazione… In che modo a­ffrontare questo tempo, approfittando del silenzio e della riflessione, che da sempre sono caratteristica del cammino di preparazione al Natale?

«Abbiamo passato giorni non facili, accolti e vissuti, però, come un tempo di purificazione e di crescita. Tuttavia, mi spiace molto che alcuni media, col pretesto di «fare chiarezza», abbiano infangato con leggerezza la Chiesa, in modo speciale i sacerdoti, dimenticando l’impegno della maggior parte di essi, la loro fedeltà alla propria vocazione, la generosità nel servizio alla gente e la passione educativa, soprattutto nei confronti delle nuove generazioni. Certe notizie suscitano un gran polverone, che non giova ad alcuno, se non a chi ricava guadagni da un certo tipo di intrattenimento. I giudizi sommari, le storie presentate con superficiale disinvoltura, in alcuni servizi, ledono la dignità e mancano di rispetto a tutti gli interessati alle vicende. Come pastore della Comunità cristiana di Como – al di là di qualche breve comunicato per rassicurare tutti sulla volontà della Diocesi di fare verità – ho scelto il silenzio (che significa riservatezza) e la riflessione, pur non mancando di esprimere una paterna solidarietà verso tutti gli interessati al caso: da quanti hanno raccontato la loro esperienza, a quanti sono già stati giudicati, umiliati e incasellati. Ora nel clamore mediatico, ora nel nostro silenzio, abbiamo sperimentato una grande unità. Segni di rinnovata stima, fiducia e solidarietà ci sono giunti da tanti, che, per quanto riguarda, nello specifico, l’impegno dei sacerdoti, credono a ciò che constatano ogni giorno nel vivere e nell’agire pastorale quotidiani».

Come procede la preparazione al Sinodo?

«Il Sinodo diocesano è la proposta pastorale più significativa che ho voluto offrire alla diocesi sin dall’inizio del mio episcopato comasco. Vorrei che fosse accolto come una grazia, un modo per far maturare la Chiesa nelle sue dimensioni più vere, ossia nella sinodalità, mediante un coinvolgimento attivo e responsabile da parte di tutti. Si tratta di raggiungere un consenso, come frutto di una comune obbedienza allo Spirito del Signore, a partire dalle mutate situazioni storiche, a servizio delle persone che oggi sono sul nostro territorio. Attualmente abbiamo compiuto solo i i primi passi: abbiamo cioè dato il via a una «commissione preparatoria» ben rappresentativa, con il compito di offrire alla diocesi le tematiche pertinenti e preparare una metodologia per lo svolgimento del Sinodo stesso, che vorrebbe essere il più possibile esteso, espressione delle numerose presenze, attive in diocesi, sacerdotali, laicali e di vita consacrata».

Quale messaggio augurale intende o­ffrire ai suoi diocesani in occasione del Natale?

«Sono stupito, in questi giorni, soprattutto qui a Como, dell’abbondanza di luce di usa in tutta la città. Una fantasmagorìa di illuminazioni, che suscita stupore e meraviglia, genera un clima di festa e di gioia, appaga non gli occhi soltanto, ma anche e soprattutto appaga e dilata il cuore. Davanti a tanto stupore, che attira il nostro sguardo, non dimentichiamo che la bellezza è sorella della verità e compagna fedele della bontà. Bellezza, verità e bontà camminano sempre insieme, non si separano mai, l’una non può fare a meno dell’altra. Il Natale viene a ricordarci che tutti gli uomini aspirano alla verità e all’amore, di esse sono assetati. Con la venuta di Cristo in mezzo a noi è scattata così una rivoluzione, la più grande della storia, che perdura ancora oggi, nonostante tutte le opposizioni e le resistenze. Da quando Cristo si è fatto nostro fratello, infatti, le persone sono state raggiunte dalla verità e dall’amore, che permette loro di accogliere ogni uomo riconosciuto come proprio fratello e ogni donna come propria sorella. Se è così, gli altri, vicini o lontani, non sono più degli esseri anonimi, senza volto, senza patria, senza storia. In ciascuno di essi identifichiamo non un concorrente, tanto meno un nemico, o uno da cui difendersi perché ci fa paura. Si tratta sempre e comunque di fratelli, e allora tutto cambia radicalmente. Lo sguardo si fa accogliente, la fraternità ci accomuna, ci unisce, ci fa sentire membri di una sola famiglia, quella dei figli di Dio. La fraternità, dunque, è la sola via per stabilire la pace e premessa indispensabile per sconfiggere ogni povertà. Allora i verbi più appropriati che il Natale del Signore viene a ripresentarci sono: «accogliere, condividere e donare». La forza del Natale del Signore sta proprio qui: nell’insegnarci che la risposta più persuasiva a tutti i nostri problemi, personali e sociali, sta nel di­ffondere attorno a noi la cultura del dono e della solidarietà, proprio in virtù di ciò che ci appartiene per grazia: siamo fratelli, siamo sorelle, perché tutti figli amati e preziosi agli occhi e al cuore di Dio Padre. Cari fratelli e sorelle: vi auguro un Natale colmo della gioia e della pace dello Spirito del Signore!».

Testo raccolto da ENRICA LATTANZI

Chiesa cattolica svizzera

https://www.catt.ch/newsi/intervista-monsignor-oscar-cantoni-natale-ci-insegni-la-cultura-del-donare/