La crisi dei rohingya e le parole del Papa in Myanmar

Segna un punto di svolta la crisi politica e umanitaria che riguarda i musulmani di etnia rohingya, minoranza stanziata in terra birmana, vessata e scacciata verso il Bangladesh da una vasta operazione militare dell’esercito regolare birmano. La crisi ha già avuto e avrà nei prossimi mesi un forte impatto sulla visita di Papa Francesco in Myanmar, prevista dal 27 al 30 novembre.

 

Dopo gli allarmi lanciati da osservatori e organizzazioni umanitarie, mentre è in atto una mobilitazione internazionale che ha travolto anche la leader birmana Aung San Suu Kyi, Nobel per la pace nel 1991 (giudicata reticente o complice dei militari), giunge il durissimo j’accuse di Zeid Ràad al Hussein, Alto Commissario Onu dei diritti umani: «Le operazioni militari della Birmania contro i rohingya sembrano applicare i principi della pulizia etnica», ha detto. «Il governo birmano, che ha negato l’accesso ai nostri osservatori, fermi subito questa crudele operazione militare, sproporzionata e irrispettosa del diritto internazionale».

 

Secondo cifre dell’Onu, sono circa mille i morti e oltre 300mila i profughi che hanno sconfinato nel vicino Bangladesh, per scampare alla furia dell’esercito birmano che non risparmia stragi di civili. Ong come Amnesty International hanno perfino segnalato l’uso di mine antipersona piazzate dai militari sul confine, per impedire che i profughi possano tornare sul territorio birmano.

 

I grandi leader religiosi del pianeta, come il Dalai Lama e Papa Francesco, non hanno esitato ad alzare la loro voce: «Buddha avrebbe sicuramente aiutato i rohingya», ha detto il Dalai Lama intervenendo sulla tragedia in corso nello stato birmano di Rakhine. Qui, nell’Ovest del paese, da decenni è stanziata la popolazione di origine bengalese e di religione islamica, che vive priva di cittadinanza, senza possibilità di accesso a lavoro, scuola e sanità.

 

Papa Francesco ne ha parlato più volte, l’ultima volta l’Angelus del 27 agosto, e la crisi umanitaria si è aggravata proprio mentre si definiva l’ufficializzazione del suo viaggio in Myanmar, che ha indotto molti osservatori a considerarlo un viaggio «pro-rohingya».

 

La piega che ha preso l’interpretazione della visita papale, però, ha finito per mettere in difficoltà l’episcopato birmano che sta lentamente ricostruendo – dopo decenni di dittatura – un rapporto di fiducia con il governo e che ha sempre nutrito una stima esplicita per Aung San Su Kyi, ora invece nell’occhio del ciclone.

 

Sta di fatto che i vescovi hanno predicato prudenza e hanno perfino suggerito al Papa di non usare la parola «rohingya» nei suoi discorsi, riferendosi più genericamente a minoranze etniche o a popolazione di origine bengalese. Alexander Pyone Cho, vescovo a Pyay, diocesi birmana che copre il territorio dello stato di Rakhine, così ha declinato la linea della prudenza e della diplomazia: «La situazione dei rohingya è molto difficile da valutare. Le notizie che circolano sono contrastanti. Quello che possiamo dire è che auspichiamo fortemente una soluzione pacifica, che tenga conto del rispetto della dignità e dei diritti umani di tutti», ha dichiarato all’agenzia vaticana Fides.

 

Il vescovo riconosce che i rohingya «sono una popolazione pacifica e cordiale, giunta in Birmania dal Bangladesh nell’era britannica, e che ha convissuto per decenni con la popolazione locale dei rakhine senza problemi». Poi ricorda: «Quattro anni fa sono iniziati i primi disordini, dopo il presunto episodio di stupro compiuto da un rohingya su un ragazza rakhine. La tensione è salita rapidamente anche per l’intervento di gruppi estremisti buddisti e il conflitto ha assunto anche in una colorazione religiosa. L’esercito è dovuto intervenire per controllare la situazione. Purtroppo la divisione e l’odio hanno continuato a covare, ed è nato perfino un gruppo armato dei rohingya».

 

È indubbio che l’organizzazione dell’Arakan Rohingya Salvation Army (ARSA), milizia musulmana che ha iniziato un anno fa a rivendicare attacchi contro presidi militari (e che ora ha dichiarato una tregua unilaterale), ha avuto l’effetto di alimentare lo spettro di un esercito musulmano (legato magari alle reti del terrorismo internazionale). E ha offerto così all’esercito birmano – noto per i suoi metodi piuttosto sbrigativi verso le minoranze ribelli – il pretesto per lanciare una vasta campagna militare che risolvesse una volta per tutte il problematico nodo di una minoranza comunque indesiderata sul suolo birmano.

 

Un’area è totalmente chiusa e interdetta agli osservatori internazionali, le violenze continuano e mentre cresce la campagna per ritirare il premio Nobel per la pace ad Aung San Suu Kyi (oltre 400mila persone hanno firmato una petizione su Change.org), il Myanmar aspetta Bergoglio sperando che la sua presenza generi «uno sforzo di umanità», ha rimarcato il vescovo Raymond Saw Po Ray, presidente della Commissione «Giustizia e pace» nella Conferenza episcopale del Myanmar.

 

La Chiesa birmana, piccola realtà di 450mila fedeli (l’1% della popolazione), continua a pregare per la pace, ha detto Saw Po Ray: «In questo senso la visita di Papa Francesco appare tempestiva e preziosa: il Papa sarà un apostolo di riconciliazione. Ma occorre ricordare che la pace va preparata con un approccio che tenga in considerazione le esigenze e le attese altrui. Speriamo davvero che il suo appello di pace venga accolto da tutte le parti in lotta».

Paolo Affatato – VaticanInsider

Chiesa cattolica svizzera

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