Biffi, umorismo e fede di un italiano cardinale

di Andrea Tornielli
CITTÀ DEL VATICANO
«In uno dei tanti dialoghi personali il cardinale mi raccontò il colloquio privato che ebbe col cardinale Colombo, quando questi gli conferì l’incarico di vicario episcopale per la cultura. «Eminenzaˮ, disse al suo arcivescovo, «come faccio? Io non so cos’è la culturaˮ. «Non ti preoccupare: neppure gli altri lo sannoˮ». È un frammento della prefazione che l’arcivescovo emerito di Bologna, il cardinale Carlo Caffarra, ha scritto al libro di Giacomo Biffi «Lettere a una carmelitana scalza» (Itaca, 304 pagine, 24 euro), in libreria da martedì 13 giugno, nel quale vengono pubblicate le missive che Biffi, da prete, vescovo e poi cardinale ha inviato nell’arco di cinquant’anni alla religiosa. Un libro in qualche modo «parzialeˮ perché nella maggior parte dei casi non vengono pubblicate le lettere della suora alle quali l’autore risponde, ma dalle cui pagine emerge bene ancora una volta la statura del cardinale Biffi. Un vero credente, parroco e pastore, capace di un grande umorismo, che – come osserva nella prefazione il suo successore Caffarra – non era satira, né scetticismo o cinismo, secondo la definizione che lo stesso Biffi ne dà: «Amare appassionatamente tutte le creature senza identificare mai nessuna di esse con il loro Creatore». Il che significa non chiamarsi fuori dalla condizione di debolezza umana, non assurgere mai a guru e anche quando si pronunciano giudizi taglienti (in lettere private), mai prendersi troppo sul serio, riconoscendo sempre le proprie debolezze e sapendo relativizzare il proprio pensiero.

La malattia della madre
Giacomo Biffi non manca di umorismo neanche nel descrivere la malattia della madre, come fa nell’agosto 1974: «In questi giorni, mia madre – che è in casa con me – è caduta in preda a una sclerosi senza rimedio, che la pone in una confusione mentale pressoché continua, e non possiamo lasciarla sola cinque minuti… Senza più costrizioni di concatenazioni logiche, è diventata una… libera pensatrice, anche se i suoi discorsi sono sempre più sensati di quelli di molti teologi».

La puntigliosità di Colombo
Due mesi dopo essere stato nominato vicario episcopale per la cultura, monsignor Biffi scrive: «Finora la sola idea che mi è venuta, è di mettere sulla porta una bella targa con le parole di Qohelet: «Chi accresce la propria cultura accresce la propria tristezzaˮ. Che ne dici? Forse servirebbe ad evitare ogni equivoco e ogni illusione a chi entra». Parlando del suo arcivescovo, il cardinale Giovanni Colombo, Biffi lo definisce «così intelligente, così coraggioso, così alieno dalla facile popolarità, così indifferente al plauso della grande stampa, così autenticamente religioso. Anche se è per molti aspetti esasperante collaborare con lui». E in questo modo ne richiama la puntigliosità: i suoi elaborati «(e tanto meno quelli degli altri) non lo appagano mai. Credo che quando entrerà nella visione beatifica, il suo primo giudizio sarà: «Pensavo meglioˮ».

«Non ho voglia di diventare vescovo»
Nominato ausiliare di Milano nel dicembre 1975, scrive: «Che peccato che i vescovi non usino più scegliersi uno stemma! Questa serissima cristianità postconciliare si sta privando di tutte le più innocenti occasioni di divertimento. Io però almeno il motto me lo sono scelto. Quello segreto, da rivelare solo agli amici, è: «Recuso laboremˮ (rifiuto il lavoro, la fatica, ndr). Quello compassato e ufficiale è: «In sollicitudine et hilaritateˮ. Non ho voglia di diventare vescovo. Non sono forte, anche se tu lo pensi. Tutta la mia forza credo stia nel dono di percepire immediatamente la stupidità, anche quando è ben nascosta dall’erudizione e dal fascino della novità e del sentimento, anche sincero, della drammaticità e della problematicità dell’esistenza. Ma i vescovi devono prendere tutti sul serio e ascoltare tutto con sofferta partecipazione. Tempi duri mi aspettano».

Don Dossetti «profetaˮ
«Don Dossetti – scrive Biffi nel 1974 – mi ha fatto molto impressione per la lucidità delle sue visioni e per l’assoluta purezza del suo impegno. È un profeta ed è un dono incontrarlo. Anche se io, da parroco milanese, avverto nella sua posizione come l’assenza di una mediazione tra l’assoluto e la realtà umana con la quale siamo quotidianamente a contatto. Credo però che sia giusto così: ci vogliono i parroci, e ci vogliono i profeti, e magari lo fossero – quelli autentici – più numerosi». A molti anni di distanza, nel 2008, dopo l’uscita delle sue memorie contenenti passaggi critici su Dossetti, Biffi scrive: «Fino alla conclusione della sua giornata terrena siamo stati vicini, legati da una stima reciproca che non ha avuto ombre». Ma pur ribadendo le sue «attestazioni convinte e inequivocabili» sulla «virtù personale di don Giuseppe, sulla sua ascesi, sulla sua coerenza cristiana», il cardinale arcivescovo emerito di Bologna aggiunge: «La sua visione teologica (e particolarmente la sua ecclesiologia) non mi pareva conforme alla Rivelazione ed era ideologicamente condizionata. E mi sono reso conto che toccava a me, prima del mio rendiconto davanti al Signore (quando confido che cadremo tutti «in grembo a un’immensa pietàˮ, l’ingrato compito di un chiarimento».

Giussani, e le reazioni «fanaticheˮ a CL
Così Biffi scrive del leader di CL: «Don Luigi Giussani, amico mio carissimo, fondatore del movimento di Comunione e Liberazione, che di questi tempi sta raccogliendo un po’ in tutt’Italia, tra i vescovi, il clero e il popolo di Dio, amore e odio ugualmente fanatici. Io non mi sento particolarmente attratto dalle forme del movimento, ma certo vedere migliaia e migliaia di studenti universitari che di fronte alla prepotenza del Movimento studentesco parlano di Gesù Cristo come se lo incontrassero tutti i giorni all’ora dell’aperitivo, mi impressiona un po’. Certo don Giussani è un uomo di Dio».

La «teologiaˮ di padre Turoldo
Tra i giudizi estremamente severi, ce n’è uno che la stessa suor Emanuela definisce «duro e impietoso», ed è quello dedicato a padre David Maria Turoldo. Scrive di lui Biffi nel 1975: «P. Turoldo: credo sia un discreto poeta, un buon traduttore di salmi, un oratore efficace. Purtroppo vuol fare altre cose. La sua «teologiaˮ è farneticante, la sua abituale frequentazione dei ricchi e dei colti lo induce a farsi annunciatore di una Chiesa povera e semplice. La sua affinità elettiva con chi ha il potere dei mezzi di comunicazione (televisione, Corriere della Sera, etc.) gli dà una risonanza e un’amplificazione del tutto sproporzionata e ingiusta. Purtroppo alla cristianità italiana oggi sono inferti profeti di questa natura».

La «bontàˮ di Bettazzi
«Le visioni sulla realtà ecclesiale» di Giacomo Biffi e di Luigi Bettazzi, vescovo di Ivrea, «sono molto diverse, ma la stima e l’amicizia sono quelle di sempre. A proposito dell’entusiasmo di Bettazzi per il rinnovamento conciliare, giudicato eccessivo, Biffi scrive nel 1974: «A me pare che tutto abbia origine dalla bontà e dal candore di don Luigi, che proprio per questo non riesce a vedere la devastazione che si va compiendo in questi anni nella cristianità: di ogni aberrazione, penso sappia sempre cogliere quel riflesso di verità e di bene che c’è sempre dovunque c’è un atto dello spirito. Percepito quello, al resto non dà peso. Chi si sente di assumersi il triste compito di disincantarlo?».

Il dolore e un Dio «almeno in apparenza latitante»
Nel libro ci sono pagine bellissime che aiutano a comprendere la profondità dello sguardo di Biffi, capace di interrogarsi sulla drammaticità dell’esperienza umana ben al di là della semplice e talvolta semplicistica ripetizione di formule dottrinali. «L’esperienza ravvicinata del dolore degli uomini e del male… – scrive nel 1983 – è uno spettacolo che supera ogni possibilità di sopportazione, tanto che per sopravvivere penso che istintivamente ci si costringa a renderci almeno parzialmente insensibili e a ispessire per così dire la pelle del nostro spirito. Mi sono sempre chiesto come faccia il Padre (che è padre), che è onnisciente e non gli è data la facoltà di chiudere gli occhi, a reggere questa visione insopportabile. E come possa restare, almeno in apparenza, latitante da queste tragedie. So che la risposta deve stare nel Figlio di Dio Crocifisso, e che in questo (che è il più incomprensibile dei possibili eventi) tutto l’enigma del soffrire umano si comprende. Ma si comprende oggettivamente, in se stesso, sul piano dell’essere; io, soggettivamente, non lo comprendo, e, illuminato da una luce così alta, resto all’oscuro. E mi confermo nella convinzione che siamo chiamati a scegliere tra l’assurdo e il mistero; tra il non-senso e il suicidio della ragione, e la resa a una verità che penosamente ci oltrepassa e ci precede».

La difficoltà di credere
«È molto difficile continuare a credere – scrive nel 1973 – Solo che l’incredulità mi sembra più difficile ancora. Mi pare di dover finire per forza tra le braccia del Padre, non tanto perché mi attirino (almeno inizialmente), quanto perché in tutti gli altri posti è, dopo un po’, impossibile stare».

Chiesa cattolica svizzera

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