Come cristiani, dove e quando, siamo invitati a prendere parola?

Tacere o parlare? In certi momenti risulta essere davvero un dilemma. Quante volte ci siamo morsi la lingua dicendo: «ma perché non sono stato zitto?». Altre volte invece ci siamo pentiti di aver taciuto quando sarebbe stato necessario un nostro intervento. A tale proposito, il terzo tema sinodale sul quale siamo invitati a riflettere, quello del «prendere la parola», può aiutarci a sciogliere questo dilemma. Siamo capaci di dire serenamente con chiarezza e semplicità le cose che ci stanno a cuore? Le nostre parole hanno senso e sono precedute da un accurato pensiero? Prima di parlare sarebbe buona regola porsi tre domande fondamentali. Le mia parola è una parola vera? È una parola buona? È una parola utile? Queste domande ci aiutano a evitare di dare voce ad affermazioni di poco conto, superficiali, di convenienza o addirittura fuori luogo.

Fatta dunque questa premessa sull’importanza di parlare con cognizione di causa, potremmo porci ora un’altra domanda. Come cristiani dove e quando siamo invitati a prendere parola?
Innanzitutto nell’ambiente familiare e in quello di lavoro è importante che ci sentiamo liberi di dire la nostra. Suggerisce Pino Pellegrino: «Usiamo parole profumate». Con la nostra parola, infatti, possiamo diffondere il buon profumo di Cristo: incoraggiando, consolando, dando fiducia, rallegrando e, se necessario, richiamando con ferma tenerezza. È vero che la comunicazione si avvale di tanti linguaggi, ma quello della parola è il principale. La parola è lo strumento fondamentale, non solo di ogni forma di comunicazione, ma soprattutto delle relazioni umane. Quante persone sole, quante persone al margine alle quali nessuno rivolge parola. Con le nostre parole possiamo stabilire relazioni calde, significative, profonde, liberanti. Parole che nascano spontanee ma non vuote, parole che affiorino dal silenzio. Nel silenzio profondo di una notte misteriosa, la Parola si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi. Cristo, Parola del Padre ha abitato il mondo. Ha narrato con parole d’uomo la bella notizia di un Dio che si fa nostro compagno di viaggio, ci offre il suo abbraccio misericordioso, ci attende per fare festa nel Regno dei cieli. Egli ha usato parole di comprensione per i piccoli, i poveri e i peccatori e anche parole forti verso gli ipocriti, i prepotenti, gli oppressori. Imparando da Lui, dovremmo riscoprire la dimensione narrativa e il potere liberante della parola. L’uomo ha bisogno di raccontarsi, di esprimere il proprio vissuto e di rielaborarlo con qualcuno che lo ascolti e lo aiuti a conoscere meglio sé stesso e a vivere la propria vocazione. Ritroviamo il gusto di una comunità cristiana come comunità parlante e orante, propositiva e lungimirante. Nella vita di tutti i giorni, infine, possiamo esercitare il potere liberante delle parole pronunciandole non per ferire, ma per guarire, non per distruggere, ma per costruire, non per ingannare, ma per illuminare. Prendiamo parole per difendere, infondere fiducia, dare gioia, offrire speranza.

Don Marco Dania,
Membro del gruppo di lavoro zone/reti pastorali e sinodo della Diocesi di Lugano

Chiesa cattolica svizzera

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