Al Sociale di Bellinzona l’arte di amare secondo Scifoni

Non avevo mai visto l’attore e regista romano Giovanni Scifoni a teatro. Pur avendone avuto l’opportunità e il desiderio – molti di voi si ricorderanno, in tempi pre-pandemia, quando Scifoni portava, in piazza Manzoni a Lugano, durante il LongLake, il suo spettacolo «Anche i Santi hanno i brufoli» [Vedi Strada Regina del 17.10.2021] – qualcosa mi ha sempre un po’ «frenato». Abituata al mondo del teatro ticinese, dove gli artisti che calcano il palco per portare un messaggio cristiano sono ben pochi se non inesistenti, qualcosa mi rendeva la figura di Scifoni – invece palesemente schierato per un teatro «impegnato» – un po’ estranea, quasi straordinaria, irraggiungibile. Insomma, temevo, in qualche modo, pur conoscendo la fama del personaggio, un flop. Temevo di ritrovarmi lì, tra le file del pubblico, confrontata con un’apologetica cristiana fuori tempo, una «crociata» anacronistica contro una società dei disvalori. E invece, ieri sera, al Sociale di Bellinzona – che di pièce di ispirazione cristiana per altro ne ospita di solito, nei suoi cartelloni, ben poche (!) –  mi sono dovuta davvero ricredere. Complice forse la ripresa post lockdown (Scifoni stesso, a fine spettacolo, ha sottolineato che «Santo Piacere» – così il titolo della pièce – torna a calcare un palco dopo due anni di stop obbligato dalla pandemia), lo spettacolo mi è giunto in tutta la sua forza, assieme all’entusiasmo di Scifoni stesso, vigoroso nel tono della voce, nei gesti, nella voglia di cercare un contatto con il pubblico, scendendo più e più volte dalla platea, per avvicinarci, scrutarci, capire chi eravamo.

Già, chi eravamo? È una bella domanda. Scifoni un po’ di «ordine» ha provato a portarlo, scendendo appunto dal palco e ponendoci alcune domande essenziali: c’è qualche ateo in sala? C’è qualche agnostico? Qualche dubbioso, almeno? Le mani non si sono alzate facilmente, un po’ per timidezza, un po’ per ritrosia. Ma Scifoni ci ha invitati a riconoscerci tutti almeno come dubbiosi, sicuro di non sbagliare poi di molto. Cattolici dubbiosi. Di cosa? Anche qui, Scifoni ha inscenato una statistica. Dubbiosi circa il mistero della Trinità? Forse. Dubbiosi circa la transustanziazione? Chissà (è normale non sapere, forse, nemmeno tanto bene cosa significhi il termine e da dove derivi). Infine, il dubbio che secondo Scifoni, invece, attanaglia almeno una volta nella vita, nel bene o nel male, qualsiasi fedele praticante: come rapportarsi alle indicazioni date dalla Chiesa circa il modo di vivere la propria sessualità? Qualche dubbio – Scifoni scommette – dobbiamo essercelo posto. A partire da chi ci dice che tutte le risposte sono nella Bibbia. Scifoni rievoca, sul palco, in quello che può essere definito il condensamento del suo percorso di vita in un’ora e mezza di teatro, la figura cara di don Marco, sacerdote – così ci racconta – che lo ha seguito dall’infanzia all’adolescenza, su su fino al matrimonio. Don Marco molte risposte, almeno fino a un certo punto, sembra non averle, o più che non averle, le esprime male, in un linguaggio che il giovane Scifoni proprio non capisce. Gli consiglia la lettura della Bibbia, appunto; ma in quella Bibbia, e soprattutto nell’Antico Testamento, Scifoni non ci trova che esempi di personaggi in conflitto interiore o, al massimo, le triste Lamentazioni di Geremia. Sempre don Marco, gli indica, come punto di riferimento, la lettura di un remoto autore cristiano del VI secolo, ma anche questo non sembra il consiglio perfetto: secondo l’intento moralizzatore tipico dell’epoca, allora si consigliava di seguire l’esempio degli animali, attribuendo loro delle virtù ideali, che in realtà non potevano avere (il «casto» lombrico, il «pudico» riccio). Gli addita, infine, la statura morale di Origene, il grande padre della Chiesa che da solo, nel deserto, sarebbe riuscito a vincere tutte le tentazioni. Ma anche questa è, per finire, figura arida, ricerca di un atteggiamento ascetico verso la vita impossibile, a lungo andare, da mantenere. «E infatti – chiosa Scifoni – Origine non è ascritto al catalogo dei Santi».

Più miti consigli giungono a Scifoni niente meno che dall’amico musulmano, dotto teologo, che gli offre nuove e inedite chiavi di lettura sul problema, a partire dalla sua semplice attività di ristoratore e con un paragone insolito. «La Bibbia, amico mio – gli rivela – è come una «spezia» per le passioni umane: le «condisce», le rende Sante. Pensiamo a San Paolo, alla sua verve violenta, prima usata per attaccare i cristiani, poi convertita in fervore per l’evangelizzazione. La violenza non è sparita, ha solo cambiato volto. E San Francesco? Un giovane profondamente ambizioso, che, convertitosi, ha imparato ad ambire solo una cosa: Cristo».

L’Islam non è l’unica fonte di saggezza «impensata» da cui Scifoni attinge per attualizzare il messaggio della Chiesa. Nemmeno, «attualizzare» il messaggio della Chiesa è il solo scopo di Scifoni, ma anche quello, giustamente, di riconoscere alla società odierna e ai suoi «miti» le sue colpe. Ricorre infatti anche all’immagine di una lampadina – pare sia esistita davvero – progetta all’inizio del Novecento per non spegnersi mai. Naturalmente l’invenzione suscita le ire degli altri commercianti, per i quali, una lampadina deve durare «al massimo sei mesi». Per Scifoni è l’immagine perfetta dell’astio della società che ci circonda per le cose che «durano». Ciò che dura non fa vendere; la fedeltà, allora, è «atto sovversivo». Per tale atto di coraggio, occorre però che non si ascoltino le sollecitazioni della società, da cui Scifoni mette in guardia con un esempio. Chiede, al suo pubblico, di spostare lo sguardo da un lato all’altro della sala, per concentrare lo sguardo sulle cose solo di colore rosso. Alla fine, dopo questo bombardamento di stimoli, chiede di chiudere gli occhi: a quale colore stiamo pensando? Ovviamente, al rosso. Così, secondo Scifoni, in modo anche abbastanza elementare, funziona il mondo che ci circonda. E l’accusa, qui sì, è forte: è il «nuovo fascismo» del potere consumistico, che, senza che ce ne accorgiamo, manipola i nostri pensieri, fino – ed è forse la denuncia più grande dell’intero spettacolo – a farci pensare che una gravidanza «indesiderata» sia una «patologia», una malattia da cui essere «guariti».

Nello spettacolo non poteva poi certo mancare il riferimento al magistero dei Papi e, in particolare, alla lettera enciclica Humanae Vitae di Paolo VI; ma anche questo risulta essere un linguaggio, in fondo, un po’ «arido», lontano, poco comprensibile. Alla fine la sorpresa migliore arriva dall’umile don Marco che, recuperata lucidità, ammette: «Con le parole non sono bravo. Ma una cosa da dirti ce l’ho, anzi una domanda: a te, quello che fai, piace?». «Santo Piacere»: don Marco svela a Scifoni il segreto di una vita felice. Certo parlare di castità o fedeltà rievoca la dimensione del sacrificio, ma fondamentalmente esse fanno parte, come virtù, di un percorso autenticamente umano, un percorso che se ti piace vale la pena sostenere, anche per quanto riguarda le sue fatiche. Se una cosa ti piace, anzi, la fatica non esiste più: semplicemente, godi. Ed è a questo Santo godimento, a questo amore per la vita che ci invita anche la scena finale della pièce, che ha sicuramente commosso tutti, come si sentiva dire anche all’uscita da teatro. C’è un modo altro di «portare a letto» qualcuno; è il modo che aveva il papà di Scifoni con sua mamma invalida: prenderla per braccio dalla carrozzina e adagiarla sul letto, cullandola fino a farla dormire. Frutto di un amore coniugale vissuto fino alla fine, questo è il vero modo di amare, che non dà solo piacere, ma anche…beatitudine.

Chiesa cattolica svizzera

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