«Traditionis custodes»: sulla Messa in rito antico Bergoglio interviene e precisa

Il 16 luglio papa Francesco ha pubblicato un documento dal titolo «Traditionis custodes» che ha suscitato interesse e dibattito: riguarda la celebrazione della Santa Messa secondo il Messale anteriore al Concilio Vaticano II. In esso il Papa precisa, con alcune norme molto più esigenti, come, quando e chi debba decidere riguardo alla Messa secondo la forma straordinaria (precedente, appunto, alla riforma del 1970). Papa Benedetto XVI, ormai 14 anni fa, aveva pubblicato la Lettera Apostolica in forma di motu proprio «Summorum Pontificum», nella quale si concedeva la celebrazione della Messa in questa forma. Desiderio di papa Benedetto era quello di favorire un riavvicinamento di alcune frange molto tradizionaliste ormai separate dalla Chiesa cattolica. Su questo punto è bene chiarire: non si sta parlando della «Messa in latino» o la «Messa celebrata con le spalle verso l’assemblea»: queste forme sono rimaste possibili anche con il Messale del 1970! La differenza è molto più sostanziale e riguarda testi, contenuti, modalità della celebrazione e della vita della Chiesa. Il primo punto da considerare riguarda il tipo di documento e la sua origine: Francesco scrive con una Lettera «di propria iniziativa» (appunto «Motu proprio») considerando una consultazione della Congregazione della Fede con i vescovi di tutto il mondo durata oltre un anno. Ciò significa che papa Francesco decide (si consideri che in nove anni di pontificato ha scritto 46 Motu proprio, nello stesso arco di tempo il suo predecessore ne aveva scritti 16) a partire dall’esperienza dei pastori delle diocesi di tutto il mondo. Nel documento – che viene presentato insieme ad una lettera indirizzata a tutti i vescovi – papa Francesco sottolinea la sua preoccupazione riguardo agli effetti di un cammino iniziato oltre dieci anni fa ma che non ha dato i frutti sperati. Anzi, al posto di essere strumento di unità il Motu proprio di papa Benedetto ha favorito la nascita di gruppi molto chiusi, saldamente ancorati alla celebrazione della Messa secondo il Messale del 1962, che hanno favorito un atteggiamento «sempre di più caratterizzato da un rifiuto crescente non solo della riforma liturgica, ma del Concilio Vaticano II, con l’affermazione infondata e insostenibile che abbia tradito la Tradizione e la «vera Chiesa»». L’intervento di papa Francesco è quindi profondamente sinodale (coglie i contributi dei vescovi) e nel contempo paterno: tanto il Motu proprio quanto la lettera accompagnatoria lasciano emergere la sua preoccupazione circa l’unità della Chiesa. La liturgia deve essere infatti espressione di questa unità, non di divisione. L’obbedienza, l’umiltà e il servizio ad essa, da parte di ciascun fedele, è proprio perché essa non è un’espressione della propria spiritualità o sensibilità, peggio ancora dei propri desideri. È espressione di una Chiesa orante. Dopo questo Motu proprio, sono quindi stabilite norme più restrittive per la forma straordinaria della celebrazione eucaristica (secondo il Messale del 1962): sarà il vescovo stesso a stabilire i presbiteri che la potranno celebrare, in quale luogo e con quale frequenza. Francesco richiama quindi all’unità della preghiera della Chiesa e coglie anche l’occasione per indicare che la Chiesa tutta deve attenersi alla giusta disciplina nelle celebrazioni: «Mi addolorano allo stesso modo gli abusi di una parte e dell’altra nella celebrazione della liturgia». Il Motu proprio e la sua lettera accompagnatoria diventano un importante contributo al cammino di ogni fedele. Il Papa, pastore della Chiesa universale, indica la strada per una liturgia che sia espressione di una comunità che prega all’unisono, che non soffoca le particolarità e le diversità presenti in tutto il mondo, ma che anzi riesce ad armonizzarle. Una  Chiesa che non celebra con tante voci soliste, ma che vive la coralità della preghiera comune.

di don Emanuele Di Marco, professore di teologia pastorale alla FTL

Chiesa cattolica svizzera

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