Etiopia: il conflitto in Tigrai e il rischio di una crisi umanitaria

È un conflitto che sta causando gravi conseguenze umanitarie, quello che da qualche settimana si sta sviluppando all’interno dell’Etiopia che vede protagonisti il governo centrale e la regione settentrionale del Tigrai.

Le notizie che escono dal Paese africano sono poche e non ufficiali, già perché dal 4 novembre, giorno in cui è stato proclamato lo stato di emergenza nel Tigrai, il governo etiope ha decretato una sorta di blocco delle comunicazioni esterne. A ricostruirci la storia degli ultimi anni che ha portato al conflitto di questi giorni è Michele Luppi, giornalista de Il Settimanale della diocesi di Como e collaboratore di Nigrizia e dell’Agenzia Sir.

La supremazia tigrina e il conflitto eritreo

Per comprendere i fatti di questi mesi dobbiamo tornare ai primi anni ’90, quando il regime comunista di Menghistu che governava in Etiopia venne abbattuto da un colpo di stato militare guidato da una coalizione di forze rappresentanti le maggiori etnie del Paese, tra cui la maggioranza era quella del Fronte di liberazione del popolo del Tigrai (Tplf). «Gli anni che seguirono, dal 1991 al 2018, – racconta Luppi – furono segnati da una supremazia dell’etnia tigrina che, da sempre, aveva rapporti difficili con l’Eritrea, Stato con cui confina. I dissidi tra i due popoli confluirono nella sanguinosa guerra tra il 1998 e il 2000 che per anni determinò la chiusura tra i due Paesi». Con il passare degli anni, «crebbe anche il dissenso delle tante etnie etiopi, in primo luogo quella della regione Oromia, nel vedere il potere sempre più forte della leadership tigrina che aveva sotto di sé il controllo politico e militare dell’intero paese».

Ahmed, dal Nobel per la pace alla guerra interna

Pur in un contesto di costante crescita economica, nel 2015, il malcontento delle varie regioni sfociò in alcune ribellioni che furono immediatamente soppresse nel sangue dal governo. «Questo controllo duro delle regioni ha portato il Paese sull’orlo di una guerra civile, tanto che nel 2018 l’allora primo ministro Desalegn si dimette e a guidare il Paese viene scelto Abiy Ahmed, già ministro della Scienza e della tecnologia, originario della regione Oromia. Appena salito al potere Ahmed cerca di portare pace nel Paese e invoca la fine del conflitto con l’Eritrea. I primi mesi del suo governo segnano effettivamente un periodo positivo senza precedenti in Etiopia che vede il suo culmine con l’accordo di pace con l’Eritrea firmato nel settembre del 2018»; un traguardo che porta Ahmed ad essere insignito del Premio Nobel per la pace. Le buone intenzioni sembrano però durare troppo poco, e solo dopo pochi mesi di governo, «Ahmed inizia a erodere quello che era il potere della leadership tigrina all’interno delle istituzioni nazionali, esercito compreso, e decide di rompere la storica coalizione politica fondando il «Partito della prosperità»».
Nell’agosto 2020 si sarebbero dovute tenere le elezioni politiche, ma Ahmed decide di rinviarle a data da destinarsi a causa della pandemia: una decisione colta dai tigrini come l’ennesimo tentativo di essere messi da parte». Per esprimere il dissenso la leadership tigrina decide di tenere comunque le elezioni «che si svolgono, nella sola regione del Tigrai, nel settembre 2020 e che vedono la netta vittoria del partito tigrino». Quest’ultima mossa della leadership tigrina non fa che peggiorare i rapporti con Addis Abeba che non riconosce le elezioni e decide, il 4 novembre di dichiarare lo stato di emergenza, avviando l’operazione militare verso il Tigrai. Pochi giorni fa, esattamente il 28 novembre, il Governo etiope ha dichiarato la conclusione delle operazioni militari con la presa di Maccallé, la capitale tigrina, ma ancora oggi la situazione rimane tesa. Nei giorni scorsi il premier Ahmed si è recato in visita in Kenya, un fatto che potrebbe significare che all’interno del Paese sia tornata la calma. Una normalità ancora supposta, dato che anche le Nazioni Unite presenti nel Paese hanno difficoltà ad accedere alla regione».

L’appello del Papa, delle Nazioni Unite e dei vescovi africani

Nelle ultime settimane anche Papa Francesco e le Nazioni Unite si sono mobilitati per scongiurare la crisi umanitaria nel Tigrai, una regione che accoglie, secondo l’Onu, 600 mila esuli eritrei e sudanesi. «Oggi queste persone sono in difficoltà perché le agenzie umanitarie faticano a raggiungerle e quindi il rischio di una crisi umanitaria è altissimo. Nei primi giorni di conflitto, inoltre, circa 40 mila persone dal Tigrai sono fuggite in Sudan; poi l’esercito federale è riuscito a prendere il controllo del confine impedendo alle persone di scappare». Da qui gli appelli del Pontefice, dell’Onu e dei vescovi africani che si uniscono a quelli dei vescovi etiopi.
La comunità cattolica rappresenta il 2% circa della popolazione che è a maggioranza ortodossa. I cattolici nel Paese riscuotono la fiducia di tanti in ambito politico, sociale e religioso, al punto che il lavoro di mediazione della Chiesa può essere di grande rilievo in questo momento.

Silvia Guggiari

Chiesa cattolica svizzera

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