Fra Michele Ravetta: «Onoriamo i nostri cari con prudenza, altruismo e speranza»

«Una vita non vale niente ma niente vale una vita». È la citazione di uno scrittore forse poco conosciuto alle nostre latitudini, André Malraux (Francia, 1901-1976) contenuta nell’accattivante libro «Cinque meditazioni sulla morte ovvero sulla vita» di François Cheng. In occasione dell’annuale ricorrenza della solennità di tutti i Santi e la commemorazione dei fedeli defunti, torna predominante la riflessione sulla finitudine umana, sul senso ultimo della vita fisica e spirituale, sulla morte e sulla vita dopo la morte. Stiamo vivendo un periodo strano della nostra epoca, quasi di pestilenziale memoria manzoniana poiché pensavamo di esserci lasciati alle spalle la pandemia che ci ha colpiti nella scorsa primavera, ferendoci profondamente visto il numero importante di decessi rispetto ad una popolazione cantonale esigua, tanto già da considerarci in un tempo post pandemico, ed ecco che il virus torna prepotente a far parlare di sé. Eppure… anche la difficile e sofferta esperienza della pandemia ci ha insegnato qualcosa: la vita è un bene che va vissuto ogni giorno, in pienezza, tra croce e delizia, poiché in un istante tutto può cambiare e lasciarci privi di persone a noi care, parenti o conoscenti, amati e stimati, che magari nella loro vita hanno lottato contro malattie cattive ed umilianti ed ora sono portate via in un baleno da un virus nemico e caparbio. Come leggere tutto questo alla luce della festa dei Santi? Quale legame tra il nostro tempo e quello che ha visto protagonisti uomini e donne di epoche lontane oppure a noi contemporanei? Un elemento prezioso è certamente quello della pazienza. Nell’assistenza pastorale dei malati di Covid-19 nella prima ondata, abbiamo avuto la possibilità di toccare con mano che la santità è una dimensione credibile e vivibile sia da parte dei malati che delle persone preposte alla cura, così pure di quei famigliari che hanno vissuto, confinati nelle loro case, il dramma di un congiunto che non avrebbero più rivisto, né vivo, né morto. Quanta sopportazione, quanto «martirio» e sacrificio intere famiglie hanno vissuto durante i tre mesi di pandemia acuta, dove anche la festa della Pasqua è stata celebrata con un tono più contenuto, meno festoso perché mancava il popolo di Dio che, voce dei santi, cantava al Risorto. E poi, quanti morti… nei nostri cimiteri era un viavai di carri funebri e di scarni cortei che portavano, uno dietro l’altro, uomini e donne all’ultima dimora. Solo in una chiave di lettura che attinge forza alla santità ordinaria, così come la definiva mons. Tonino Bello, abbiamo potuto evitare di impazzire di dolore ma… ora? Ci risiamo. Certo, siamo più sul pezzo, ci muoviamo meno alla cieca nel curare gli ammalati che ci sono e che verranno ma i sentimenti dovranno ancora pagare lo scotto del confinamento, della lontananza e quindi della nostalgia. Alla nostra fragilità e transitorietà supplisca la preghiera, l’offerta del volontariato, l’interessamento per quelle persone che saranno chiamate a dare un senso a ciò che un senso non ha, un dolore non voluto, non necessario ma difficilmente evitabile: è lo sporco lavoro del virus. I nostri malati e le loro famiglie, santi della modernità, ci devono interrogare anche sul nostro essere cristiani: non lasciamo che anche questa seconda ondata ci abbatta al punto da smorzare la speranza che vive in noi. Diventiamo fin da subito persone prudenti ed altruiste: i martiri non si lamentavano mentre venivano straziati; noi non lamentiamoci per una mascherina sul viso.

Fra Michele Ravetta,
assistente spirituale del Care Team Ticino

Chiesa cattolica svizzera

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