«Insieme a Wojtyla su quelle cime, dove lui dialogava con Dio»

Le uscite in montagna di Giovanni Paolo II non erano solo un momento di svago. «Per lui era l’occasione di avvicinarsi al Signore, pregando e contemplando la bellezza». Parola di Lino Zani, alpinista e ed esperto di montagna: per 21 anni ha accompagnato il Papa polacco nelle escursioni a piedi o sugli sci, dal Trentino all’amato Abruzzo. Nel centenario della nascita di Karol Wojtyla, condivide il ricordo di un’amicizia straordinaria.

Quando ha conosciuto Giovanni Paolo II?

Nel 1984. Gestivo con i miei genitori un rifugio sul monte Adamello: avevamo letto che il Papa era un appassionato di montagna, così gli scrivemmo una lettera. In estate trascorse da noi qualche giorno di vacanza, poi mi chiese di accompagnarlo anche negli anni successivi.

Che importanza aveva nella vita spirituale del Papa l’incontro con la montagna?

Ne amava il silenzio, la possibilità di far viaggiare lo sguardo dalla cima verso le valli. Le escursioni erano momenti ludici, ma anche di riflessione e soprattutto di preghiera. Aveva un modo mistico di isolarsi dal mondo, in quegli istanti dava l’impressione di essere veramente in dialogo col Signore.

Sono diventati famosi i vostri martedì, il giorno in cui il Papa lasciava il Vaticano per recarsi in Abruzzo.

Uscivamo in due macchine: davanti Giovanni Paolo II e il suo segretario, monsignor Dziwisz; dietro io e gli uomini della sicurezza. D’inverno andavamo a sciare, in primavera a passeggiare. D’estate poi lo raggiungevo in vacanza: a Lorenzago in Trentino, oppure a Les Combes in Val d’Aosta.

Mai avuto problemi di sicurezza?

Il Santo Padre era quasi irriconoscibile nei vestiti sportivi. A dire il vero gli impiantisti di Campo Felice, in Abruzzo, ogni martedì facevano trovare le piste battute alla perfezione. Ma hanno sempre mantenuto il segreto.

Ricorda qualche aneddoto in particolare?

Un anno andammo a sciare in Abruzzo il martedì di Carnevale. Si avvicinò un bambino e gli confidammo che quello era il Papa. Sciò con noi tutta la mattina, alla fine la mamma venne a prenderlo e gli chiese: «Con chi stavi sciando?». E il bimbo: «Col Papa!». Dato che era Carnevale, la signora pensò a uno scherzo. Quando si trovò davanti Giovanni Paolo II, quasi svenne per l’emozione.

Karol Wojtyla amava la convivialità?

Eccome. Era goloso di formaggi e gli piaceva cantare in compagnia. Durante le passeggiate estive, spesso si fermava a chiacchierare con i contadini o i passanti. Si arrabbiava con gli uomini della sicurezza che camminavano davanti a lui: «Cosa volete che mi facciano queste persone?». Più di una volta non siamo riusciti ad arrivare alla meta stabilita, proprio perché il Papa si attardava con le persone che incontrava.

Qual è l’ultimo ricordo che ha di lui?

Conservo una foto dell’ultima camminata, nell’estate 2004 in Val d’Aosta. Ormai era molto provato dalla malattia: in quelle uscite portavamo sempre una sedia pieghevole, lui faceva giusto pochi passi e poi si fermava in riva a un laghetto a pregare. Sono stato poi alla sua ultima udienza pubblica, il 26 gennaio 2005. Andai a salutarlo, lui mi strinse forte le mani e disse: «Lino, il nostro Adamello…». Sentii il suo desiderio di tornare su quelle montagne, con il corpo e con lo spirito.

Se Giovanni Paolo II fosse stato vivo oggi, come avrebbe vissuto la pandemia?

Credo che non avrebbe sopportato l’idea delle chiese vuote. E avrebbe fatto di tutto per essere vicino alle persone colpite dalla malattia, soprattutto a chi ha vissuto il dolore per la morte di una persona cara costretta ad andarsene nella solitudine.

Dopo le settimane di isolamento, dove sarebbe andato a passeggiare?

Direi a San Pietro della Ienca, nella zona del Gran Sasso. Lì c’era una chiesetta a cui era molto legato, si fermava sempre durante le passeggiate.

Lino Zani e Papa Giovanni Paolo II in Vaticano

Quale sarebbe stato il suo insegnamento in questo momento di crisi?

Ricordo una cosa che mi disse nel 1988, e credo sia adatta anche per questo tempo. Il 1° maggio avevo scalato per la prima volta una montagna di 8mila metri. Al ritorno andai a trovare il Papa, lo facevo sempre perché prima di partire lui mi lasciava una croce da piantare sulla cima della montagna. Quel giorno mi chiese: «Lino, cosa ti spinge ad andare così in alto?». Io risposi: «Santo Padre noi alpinisti vogliamo arrivare alla cima per vedere cosa c’è dall’altra parte». Ricordo che fece una battuta: «Guarda che nella vita, dall’altra parte puoi andare una volta sola…». E poi aggiunse: «La montagna ci dà un grande insegnamento: arrivati in cima, si può solo scendere». Gli chiesi cosa intendesse e mi spiegò: «Bisogna saper rinunciare a quello che si è conquistato, tornare indietro e prendersi delle nuove responsabilità». È forse l’insegnamento più bello che mi ha lasciato, e credo valga per tutti, ora che siamo impegnati nella «scalata» di questo momento difficile.

Che cosa le ha lasciato nel profondo l’incontro con Giovanni Paolo II?

Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo porta nel cuore un ricordo speciale: anche se incontrava migliaia di persone, Giovanni Paolo II lasciava a ciascuno qualcosa di personale. Una parola, uno sguardo, una stretta di mano: anche negli anni della malattia, ha sempre saputo entrare in relazione con le persone. È stata questa la sua vera santità.

Ha raccontato la sua amicizia in un libro: «Era santo, era uomo». Da cosa traspariva l’umanità di Wojtyla?

Era veramente uomo perché capiva le debolezze, sapeva comprendere le difficoltà della vita concreta. Io vivevo sei mesi all’anno a 3000 metri, andavo a messa ogni tanto quando passava un prete… Gli ho presentato anche diverse fidanzate. Lui scherzava: «Lino, quando metti la testa a posto?». Ma sapeva ascoltarmi, e capirmi in profondità come nessun altro.

Gioele Anni (redattore catt.ch)

Chiesa cattolica svizzera

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