Per conoscere Maria: dalla Bibbia alla vita e cultura di ieri, oggi e domani (3)

di Ernesto Borghi (coordinatore della Formazione Biblica nella Diocesi di Lugano)

Continua il percorso formativo alle radici dell’identità di Maria di Nazareth, madre di Gesù. Proponiamo una lettura di due altri evangelici essenziali in proposito, la visitazione (Lc 1,39-45) e il «Magnificat» (Luca 1,46-55). Chi volesse ascoltare il commento del «Magnificat», che qui è presentato per iscritto, contemplando anche un serie di testimonianze artistiche di carattere mariano, potrà collegarsi al canale youtube «Oratorio Kolbe» utilizzando QUESTO LINK.

La risposta di una fede appassionata: lettura di Luca 1,39-55

«39In quei giorni Maria si diresse verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda. 40Entrò nella casa di Zaccaria e salutò Elisabetta. 41Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le saltò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo 42ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! 43A che cosa debbo che la madre del mio Signore venga a me? 44Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino è saltato di gioia nel mio grembo. 45E beata colei che ha creduto che vi sarà il compimento delle parole del Signore».

           Il testo lucano mostra la rapidità istantanea di questa determinazione e della sua realizzazione (v. 39), secondo una logica solidaristica piena che è anche molto di più: la fede è dono di Dio, ma è anche risposta umana e, come ogni atto umano, non può fare a meno di condivisione e di appoggio. Perché Maria va da Elisabetta? Il testo dei vv. 39-40 in sé non offre alcuna esplicita motivazione. Forse si possono fare delle considerazioni di commento intrabiblico dicendo che «gli uomini e le donne della Bibbia sono in cammino dal momento in cui l’azione di Dio si fa sentire. Luca si affretta così come Maria e non perde tempo a descriverci questo viaggio. Tutto si concentra sull’arrivo»[1].

            L’ingresso della cugina suscita una reazione profonda in colei che attende la nascita di Giovanni. Pochi giorni di fronte ad oltre sei mesi: i due nascituri, che hanno percorso sinora questo tratto della loro formazione intrauterina, si «incontrano», e quello che anzitutto ne scaturisce è gioia subitanea, a sottolineare, come in Lc 1,28, che quando Dio incontra l’essere umano, ciò che ne deriva è e deve essere anzitutto questo sentimento positivo e non la paura dell’ignoto o il terrore del portentoso.

            L’evento non è presentato soltanto dalla parte narrativa (v.41a), ma ripreso esplicitamente da Elisabetta (v. 44). Ella può esprimere efficacemente il suo entusiastico stato d’animo (cfr. Gen 25,22; 2Sam 6,13-22), perché l’incontro con la madre del Figlio di Dio l’ha resa partecipe del dinamismo divino più autentico: lo Spirito di Dio (v. 41b). Elisabetta, di fronte alla gioia che ha provato in sé, non può che essere riconoscente della grazia di tale incontro: questo è il senso della duplice benedizione che Elisabetta rivolge con voce veemente, alla sua visitatrice e alla creatura che costei ha appena iniziato a custodire in grembo (v. 42).

            Comunque la domanda di Elisabetta nel v. 43 constata, con meraviglia, la rivelazione stravolgente della benevolenza fecondante di Dio. La motivazione essenziale di tutto questo straordinario movimento, dall’esterno geografico all’interno di un grembo materno, è l’accoglimento mariano della proposta divina, dunque la fede di Maria (cfr. anche Gen 15,6 e il «precedente» costituito da Abramo) nel compimento della promessa divina (v. 45)[2].

           Circa la storicità dell’intero episodio della visitazione (una ragazzetta, per giunta promessa sposa, che compie da sola un viaggio di più giorni pare il primo dato inverosimile) e anche in ordine alla veridicità della parentela tra Elisabetta e Maria non vi sono certezze.

           Nessuna tradizione, anche neo-testamentaria, sostiene la parentela tra il Battezzatore e Gesù, mentre nelle versioni evangeliche è affermata la presenza di rapporti tra i seguaci di Giovanni e i discepoli del Nazareno, in termini di rivalità (cfr. Gv 3,22ss; 4,1-2; Mt 11,2ss). Quest’ultimo fatto appare incomprensibile, se fin dall’inizio le madri hanno riconosciuto la futura funzione dei loro figli come precursore e Messia.

            Il redattore lucano non si preoccupa particolarmente – al di là di quanto affermato da lui in 1,1-4 – della verosimiglianza di quanto racconta. Egli colloca all’inizio della vita dei protagonisti del suo racconto, a titolo di prefigurazione, quello che contrassegnerà l’attività e i rapporti tra loro durante la loro vita pubblica letta alla luce della Pasqua: si tratta di una tecnica compositiva che intende presentare a chi legge, fin dall’inizio, il mistero e il dato di fede nella sua completezza per poi svilupparli nel corso dell’opera. La capacità e volontà di affidamento di Maria è il motivo culminante sul quale Lc concentra l’attenzione del lettore, che legittimamente può attendersi una replica mariana. E, infatti, essa arriva, tramite un cantico di lode straordinario. Il suo probabile contesto originario è la vita liturgica di una comunità giudeo-palestinese delle origini cristiane, che proietta il discorso teologico ed antropologico ben al di là dei possibili ascendenti culturali. E il redattore lucano mette sulle labbra di Maria queste parole – che vengono da una tradizione testuale esterno al vangelo – che sono un ponte salvifico tra passato e futuro[3].

«Celebra fortemente, l’anima mia, la grandezza del Signore e scoppia di gioia, il mio spirito, nel Dio che mi salva, perché ha rivolto il suo sguardo sulla pochezza della sua serva: ecco, a partire da ora, tutte le generazioni mi proclameranno felice, perché per me ha fatto cose grandi il Potente».

           Maria non risponde direttamente ad Elisabetta, ma replica alla vicenda salvifica di cui è oggetto e soggetto insieme, come e più di ogni altro essere umano. L’andamento dei vv. 46b-47 è certo eloquente. Un verbo dal grande valore amplificante inizia il cantico e il suo pendant strutturale è un altro verbo che manifesta una gioia globale (cfr. Sal 41,2-3; 1Sam 2,1; 2Sam 7,22).

           Questa glorificazione a voce alta e corale del salvatore è realizzata dalla totalità del soggetto: da un lato, l’anima quale radice dinamica dell’essere vivente (psyché = ebraico nefesh); dall’altro lo spirito dell’individuo (pnèuma – basi ebraiche: ruah e nesamah), ossia la persona nel suo dinamismo relazionale. La terminologia in oggetto è al di fuori da qualsiasi contrapposizione ellenizzante tra anima e corpo.

           Gli oggetti di questo gioioso riconoscimento d’eccellenza sono, rispettivamente, il Signore, il Dio vivente dei Padri che manifesta la sua fedeltà e bontà alla generazione attuale e Dio salvatore, ossia la precisazione del titolo attivo fondamentale del Divino in questione. Tutto il componimento evoca gli atti di questo salvatore. L’intera persona di Maria (essere vivente e spirito) giubila di lode nei confronti di chi dà senso decisivo alla sua esistenza. L’associazione tra la lode magnificante del primo verbo e la manifestazione della gioia del secondo è specifica dei testi lucani, fatto che ne aumenta la portata semantico-contenutistica (cfr. anche Lc 19,37; At 2,46-47).

           Il motivo fondamentale del giubilo laudativo di Maria è manifestato da una spiegazione chiara: lo sguardo partecipe e beneficante di Dio si è rivolto su una persona qualunque nonostante la sua limitatezza umana e personale. Maria, dichiaratasi serva del Signore, altermine dell’annunciazione (v. 38), sintetizza in sé il ruolo di portavoce dei meno rilevanti.

           Un’espressione di sorpresa e sbalordimento (v. 48b), segnala l’inaugurazione di un’età nuova, associata alla formulazione successiva, nella quale il redattore lucano, teologo della storia e della salvezza (cfr. anche 5,10; 12,52) sottolinea il discrimine temporale del salto di qualità salvifico in corso.

           La beatitudine mariana, come riconoscimento futuro costante – indicata da un verbo, che in Lc si trova soltanto qui – si radica in quanto Dio ha operato in lei con la sua accettazione libera e responsabile (48a.49a). Il soggetto di tale riconoscimento «beatificante» – tutte le generazioni – indica un coinvolgimento a spettro globale secondo un piano divino generale. In esso il connotato espressivo di Dio è la potenza storicamente attuatasi. Il suo oggetto – grandi cose (cfr. Dt 10,21; Sal 119,18)– è in chiaro contrasto semantico con la piccolezza della destinataria di tale agire. Esso domanda una risposta umana altrettanto generale.

           L’insieme del v. 49 è una formula piena di rispetto e pudore: se non si conosce il racconto in cui è inserito il Magnificat, non si riescono ad identificare queste grandi cose. Si tratta, quindi, di parole audacissime: sono l’iscrizione di ciò che tocca Maria nella lunga catena di meraviglie di Dio, nella litania delle sue opere di salvezza (un’adolescente incinta da parte di chi dona l’Unico nella semplicità, povertà e silenzio).

«e santo è il Suo nome».

            La santità del nome ha un rilievo fondamentale e, in questo cantico, è forse il centro di gravità teologico-antropologica del discorso. Infatti l’appellativo di santo era normale per gli dei come il termine santo è stato applicato a persone e cose prima di divenire il termine specifico del mondo trascendente. Una volta operata questa trasposizione, però, la santità esiste solo in relazione alla santità di Dio, così come l’aspetto di separazione, essenziale altrove,è dominato da quello della relazione.

           Dio è l’Altro che entra in relazione e che fa partecipare chi è destinatario della relazione alla sua santità: brano primotestamentario emblematico in tal senso è Ez 36,16-38. In questa prospettiva i cristiani verranno presentati come quelli che invocano il nome del Signore (At 9,14-21; 1Cor 1,2) e che saranno chiamati santi, perché in relazione con il «Santo» (At 9,13.32-41; Rm 1,7). Il vigoroso tentativo di lodare degnamente l’Indicibile trova in questa espressione mariana il suo esito, che ha, come vedremo, un’influenza decisiva sul prosieguo del testo.

«e la sua appassionata benevolenza per generazioni e generazioni va verso coloro che si legano a lui. Ha dispiegato potenza con (il) suo braccio, ha rovinosamente disperso gli arroganti nei progetti dei loro cuori. Ha strappato i potenti giù dai troni, ha esaltato quanti vivono una situazione di pochezza, ha riempito di beni gli affamati e ne ha mandato via del tutto privi i ricchi. Si è schierato a favore di Israele, suo servo, per fare memoria della sua appassionata benevolenza, come aveva parlato ai padri nostri, in favore di Abramo e dei suoi discendenti per sempre».

           Il v. 50 indica immeditamente il movente e carattere distinitivo dell’azione divina: la sua appassionata benevolenza. Questa parola, che ricorre anche nel v. 54, dà all’insieme del testo un’atmosfera ben precisa. Essa non si capisce senza avere presente il suo ascendente ebraico e il contesto da cui esso viene e in cui esso si colloca. Si tratta della parola hèsed (ndr. = greco éleos) che esprime la gratuità dell’amicizia ed è alla radice della scelta preferenziale verso qualcuno. Esso esprime anche il desiderio di reciprocità, il comportamento che rende possibile il rapporto di scambio tra persone unite da un legame: fedeltà, generosità, lealtà, fiducia.

           Nel quadro di una prospettiva storica intensamente estesa che continua (cfr. v. 49a) questa attenzione beneficante di Dio si dirige verso quanti nutrono un autentico rispetto esistenziale per lui. Letteralmente si dovrebbe tradurre coloro che lo temono. Ciononostante il timore in questione non ha alcun rapporto con una nozione di paura del Divino. Indubbiamente il timore è uno degli atteggiamenti dell’essere umano verso Dio più ricorrenti nella Bibbia. Si tratta di capire di quale genere di timore si tratti.

            L’atteggiamento evocato da Maria comporta l’umile riconoscimento, appunto, della santità di Dio, un atteggiamento di adorazione amorosa, di obbedienza pacifica e felice alla Parola, d’umiltà gioiosa nella fede, umiltà presente ovunque Dio si rivela, agisce e salva.

           Da questa base il cantico esprime uno sguardo sul passato come testimonianza emblematica dell’effettiva attenzione del Signore all’affermarsi di questi valori nella storia umana. Ciò ha implicato anche fenomeni di totale ribaltamento socio-culturale e socio-economico.

           Nei vv. 51-53 si riscontrano 6 verbi di azione, che registrano un processo salvifico «sconvolgente», dal passato dell’agire di Dio in favore dell’umanità (cfr. Sal 89,11) e di Israele (cfr., per es., nella traduzione dei Settanta, Sal 111,9) allo svilupparsi dell’azione di Gesù sino alla continuità post-pasquale. Essi abbracciano passato, presente e futuro nel loro risuonare, sulle labbra di Maria, come professione di fede e grido di speranza. Riprendiamone l’articolazione:

Ha dispiegatola potenza del suo braccio,
ha rovinosamente disperso gli arroganti con i progetti dei loro cuori.
Ha strappato i potenti giù dai troni,
ha esaltato quanti vivono una situazione di pochezza,
ha riempito di beni gli affamati
e ne ha mandato via del tutto privi i ricchi

            Vi è certamente una grande speranza messianica di fondo (cfr. 1Sam 2,7) legata a dati di fatto della storia del popolo di Israele, secondo una costante più volte riscontrata: la potenza di Dio si manifesta in modo eclatante nella debolezza.

           L’essere umano è una creatura presso la quale tutto è dono: riconoscere questo fatto significa collocarsi in un atteggiamento di obbedienza e di domanda, condizione che chi è potente e/o ricco fine a se stesso stenta ad accettare. Infatti può più difficilmente essere in una logica di gratuità, in quanto si crede felice (= salvato) per proprio merito. E il cantico termina così:

Si è schierato a favore di Israele, suo servo,
per fare memoria della sua appassionata benevolenza
come aveva parlato ai Padri nostri,
in favore di Abramo e dei suoi discendenti per sempre».

            In forma circolare con quanto affermato al v. 51, il 54 esprime la sintesi dell’azione divina nella storia della salvezza: il comportamento liberatorio di Dio verso il partner d’alleanza (cfr. Is 41,8; 44,1; 52,13-LXX), finalizzato ad un ricordare attivo e risolutivo: il memoriale divino è sempre efficace e attivo e la sua caratteristica di azione eterna è l’appassionata misericordia, suo oggetto immediato e espressivamente molto eloquente.

            Il versetto conclusivo del cantico radica la riflessione poetica nella relazione storica di Dio con le prime generazioni umane che hanno accolto l’alleanza con lui, dunque Abramo e la sua progenie.

           La memoria di Dio appare ancora come l’espressione di un’indefettibile fedeltà alle generazioni umane, una fedeltà che impegna e chiama all’azione. Qui manca qualsiasi riferimento neo-testamentario, perché il redattore lucano è impegnato a sottolineare la continuità della storia salvifica pregressa all’incarnazione divina nel Nazareno. Israele è depositario delle promesse dei Padri: le parole di Maria concludono il discorso sulla globalità della storia, dicendo il comune denominatore dell’agire divino.

           Il Dio che opera i ribaltamenti cantati in Lc 1,46-55, quello che spodesta e priva gli usurpatori della loro falsa condizione di superiorità, che esalta gli umili e li esalta di beni, manifesta sicuramente questa appassionata misericordia che sa perdonare e liberare. E Maria, con questo brano intimamente poetico, «meditando il cantico di Anna, vi scopre la pedagogia di Dio, che è attento al piccolo e che gioisce dei valori umani. Il parallelismo tra l’Antico e il Nuovo Testamento proclama la fedeltà di Dio alla sua promessa»[4].

            Uno sguardo complessivo a questo splendido componimento, che tenga conto di quanto abbiamo letto in precedenza della versione lucana, evidenzia come esso sia l’interpretazione esplicativa della fede con cui Maria ha aderito all’annuncio di Gabriele.

           «Il Magnificat è una canto di redenzione: senza l’esperienza della salvezza non si spiegano le sue parole né la gioia che lo pervade. Al tempo stesso è un canto di speranza: i redenti dal Signore attendono ancora la piena manifestazione della gloria di Dio. È anche un canto di impegno e dei responsabilità… perché si affretti l’ora, nella quale la giustizia di Dio regni pienamente sulla terra e la sua salvezza abbracci tutte le dimensioni del tempo e dello spazio. Il Magnificat è una contestazione radicale al regno del peccato sconfitto dall’opera del Salvatore e ormai senza futuro, anche se il male continua a insidiare i progetti di Dio e il cammino del suo popolo. È compito dei credenti illuminare con questo canto la verità su Dio e sui suoi disegni, smascherare e rendere vane le trame di potenti, ricchi e oppressori»[5].

            E non si può negare la forza sociale delle parole del cantico proprio nella sua prospettiva di lode verso Dio. Altri cantici biblici, proclamati da donne, hanno evidenziato che il Signore dà la vittoria agli esseri umani perché è fedele alla sua alleanza. Il canto equivale sostanzialmente ad un vero e proprio «combattimento», perché è Dio che «combatte» per liberare il suo popolo e accrescere il livello di giustizia proprio del suo vivere:

           «Non è quindi opportuno tentar di edulcorare quanto il cantico di Maria ci dice dell’amore preferenziale di Dio per gli umiliati e i maltrattati, e della trasformazione della storia implicata dalla sua volontà d’amore. Con ciò non si rende più spirituale il testo, lo si svuota del Dio che Gesù Cristo è venuto a rivelarci e lo si rende etereo e inoffensivo verso i privilegi ingiusti di questo mondo. La forza spirituale delle parole di Maria consiste nel farci vedere come la ricerca della giustizia debba essere posta nella cornice della gratuità dell’amore di Dio, pena la perdita del suo significato profondo, e al tempo stesso nell’aiutarci a comprendere che questo amore libero e gratuito – che dà motivo alla nostra preghiera e azione di grazie – esige da parte nostra solidarietà con chi vive una situazione contraria al disegno di vita del Dio di Gesù Cristo»[6].

            Un cantico come questo – che dovrebbe diventare la preghiera mariana per eccellenza accanto Ave Maria nel contesto testuale e storico-culturale in cui è inserito risulta inequivocabilmente sia personale che comunitario: della serva del Signore e di tutto il popolo di Dio. In Maria Israele e le popolazioni religiosamente pagane divengono Chiesa anche attraverso le parole di questo cantico di liberazione e di lode. E la realizzazione dei ribaltamenti sociali evocati nel testo troverà realizzazione e ostacolo proprio anche nella storia dei seguaci del Cristo.

            Come si vede, a partire da Lc 4,16ss, la proclamazione universale del Vangelo di Dio potrà condurre, a seconda della libera volontà umana, all’eclissi o meno delle false divinità, alla caduta o meno dei regimi oppressori che anche su questa falsa religiosità fondano il loro potere[7]. E il superamento dellesituazioni di ingiustizia dipenderà dalla capacità degli esseri umani di agire secondo le modalità con le quali il Dio di Gesù Cristo è vissuto e ha agito: la difesa giusta, ossia appassionatamente misericordiosa di tutti coloro che sono poveri.

            Al termine di questa lettura rileggiamo l’insieme di questo splendido inno, nella nuova traduzione ecumenica pubblicata da ABSI nel 2018:

Celebra fortemente, l’anima mia, la grandezza del Signore
e scoppia di gioia, il mio spirito, nel Dio che mi salva,
perché ha rivolto il suo sguardo sulla pochezza della sua serva:
ecco, a partire da ora, tutte le generazioni mi proclameranno felice,
perché per me ha fatto cose grandi il Potente,
e santo è il suo Nome,
e la sua appassionata benevolenza
per generazioni e generazioni
va verso coloro che si legano a lui.
Ha dispiegato potenza con (il) suo braccio,
ha rovinosamente disperso gli arroganti nei progetti dei loro cuori.     
Ha strappato i potenti giù dai troni,
ha esaltato quanti vivono una situazione di pochezza,
ha riempito di beni gli affamati
e ne ha mandato via del tutto privi i ricchi.
Si è schierato a favore di Israele, suo servo,
per fare memoria della sua appassionata benevolenza,
come aveva parlato ai padri nostri,
in favore di Abramo e dei suoi discendenti per sempre».


[1] F. Bovon, L’Évangile selon Saint Luc, I, Labor et Fides, Genève 1991, p. 85.

[2] «La giovane Maria ci è maestra con la sua fede libera e determinata. Accanto a lei c’è Elisabetta che ci ricorda un ministero spesso sottovalutato: la capacità di saper accogliere giovani fedi, piccole o maestose che siano, per aiutarle a crescere e non farle abortire nella sfiducia e nel disprezzo» (L. Maggi, L’evangelo delle donne. Figure femminili nel Nuovo Testamento, Claudiana, Torino 2010, p. 16).

[3] «Se la vocazione di Maria si è giocata nel privato, la verifica di questa chiamata diventa comunitaria, attraverso la mediazione di Elisabetta che la accoglie nell’assemblea liturgica. Elisabetta ha introdotto la melodia, ha iniziato a battere il tempo e il ritmo dell’anima: e Maria è diventata musica. Un canto gioioso di esultanza e ringraziamento» (L. Maggi, L’evangelo delle donne, Claudiana, Torino 2014, p. 19).

[4] F. Manns, Beata Colei che ha creduto. Maria, una donna ebrea, tr. it., Edizioni Terra Santa, Milano 2009, pp. 44-45.

[5] A. Valentini, Maria secondo le Scritture, EDB, Bologna 2007, pp. 163-164.

[6] G. Gutierrez, Il Dio della vita, Queriniana, Brescia 1991, p. 308.

[7] Cfr. A. Maggi, Non ancora madonna. Maria secondo i Vangeli, Cittadella, Assisi 2008, p. 54.

Chiesa cattolica svizzera

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