L’abbadessa Corradini: questo è il tempo di Maria, per ripartire dalla tenerezza

Diciassette anni trascorsi nel monastero benedettino dell’Isola di San Giulio accanto alla madre Canopi. Una chiamata ricevuta giovanissima, poi gli studi in medicina, la laurea, il lavoro in corsia come medico infettivologo grazie anche ad una borsa di studio sull’AIDS, vinta nel 1988.  Poi la clausura. Oggi madre Maria Emmanuel Corradini è l’abbadessa del monastero benedettino di San Raimondo a Piacenza, autrice di diverse pubblicazioni e di lectio quotidiane aperte ai fedeli della città. Il monastero, infatti, è nel cuore di Piacenza, per l’abbadessa una collocazione che trasforma il luogo in una «locanda dello spirito» alla cui porta bussano uomini e donne con le loro domande e storie. Ma non solo, perché l’attigua chiesa di San Raimondo è diventata un luogo dove l’abbadessa «spezza la Parola di Dio del giorno» per le consorelle e i fedeli che vengono lì a pregare. Il passo dalla chiesa al web è stato rapido e le sue meditazioni sono fruibili nel sito del monastero. La raggiungiamo al telefono in una Piacenza dove lo «smarrimento nella Pandemia è stato grande», dice.

Madre Maria Emmanuel, siamo nel mese di maggio dedicato a Maria, quale icona biblica mariana sceglierebbe per questi giorni?

Ho pensato a Maria sulla strada del Calvario che vede passare suo figlio sofferente, piagato, con la croce sulle spalle. Penso a tutte le persone che in questi mesi sono state prelevate e messe in ambulanza, che hanno lasciato i loro cari. Maria non può fare nulla, non può avvicinarsi al Figlio e portargli una parola di conforto, alleviargli il dolore. Così, tanti nostri fratelli, non hanno potuto fare nulla per i loro cari, neppure tenere loro la mano.

Però Maria guarda suo Figlio, lo guarda allontanarsi, lo segue con uno sguardo che parla di un amore che va oltre i muri.

I nostri cari scomparsi o ospedalizzati hanno sentito che c’era questo amore. Maria ha seguito Gesù fino ad incontrare il miracolo che è avvenuto da quella morte, che è la Chiesa.

Non possiamo pensare che la sofferenza e la morte dei nostri fratelli abbia concluso tutto.

Come trovare un senso nella morte dei propri cari?

La morte non spegne l’amore, il bene compiuto dal congiunto non finisce. L’amore, la carità, in Cristo ha vinto sulla croce. Cosa vuol dire per noi? Tutta la vita di chi è scomparso, tutto il bene che ha voluto agli altri, rimane. Certo, umanamente manca l’abbraccio, l’affetto, la capacità di guardare chi non c’è più.

Ma ciò che resta è l’amore.

Qui a Piacenza si vedono nascere tante iniziative di bene portate avanti «in memoria» di persone scomparse in questi giorni. E allora il bene germoglia: la morte non ha l’ultima parola.

In questo mese di maggio è tradizione pregare il Rosario. Qual è il senso di questa preghiera?

È la preghiera del popolo. Mons. Tonino Bello ha definito Maria «la donna del grembiule», la donna che fa le faccende di casa. Il Rosario è la preghiera della vita quotidiana. Spesso si pensa che spiritualità e quotidianità siano due dimensioni distinte, invece grazie al Rosario le scopriamo unite. Come la vita di Maria è stata abitata da Cristo, così il Rosario fa entrare Cristo in quello che facciamo, nella nostra quotidianità.

In questa fase sociale di lenta ripresa, si parla di ferite psicologiche latenti o che stanno emergendo nelle persone. La fede forse non può risolverle ma certamente accompagnarle. Come? Pensiamo, a Maria che è stata segnata nel profondo, da quella profezia che le annuncia la spada che le avrebbe trafitto il cuore. Maria serba nel silenzio, per tutta la vita, questa ferita.

Devo dire che ho visto tantissime situazioni, anche come medico, dove se la terapia psicologica può fare molto, non può però riempire i buchi di mancanza di senso. La terapia – come si dice – fa elaborare il lutto, ma non basta: ci vuole una motivazione che dia un senso a questo dolore.

Gesù risorto mostra le sue ferite. Sono ferite risorte. Cosa vuol dire? Il dolore rimane, ma lo si legge in modo diverso.

Anche Maria si è lasciata guarire dal custodire la Parola. Molte cose Maria non le capiva, però le custodiva nel cuore attraverso quella Parola che, piano piano, gliele faceva comprendere. Se noi aiutiamo le persone a trovare un senso e un nome alle proprie ferite, queste non ci faranno più paura ma le conosceremo e le potremo mettere ai piedi del Signore. Ci sono certe rabbie, certe inclinature, certi perdoni non dati che diventano dei macigni. Ecco, quindi l’importanza di purificare la memoria portandoli consegnandoli al Signore, perché diventino strumenti della Sua misericordia.

La fede è credere che Dio, davvero, è il medico celeste.

Pensiamo a Pietro, a quanto si è sentito amato, lui che era così ferito nel cuore dal tradimento. Si è sentito amato e per questo si è risollevato! Le persone hanno bisogno di essere amate per essere recuperate. La fede fa credere all’amore di Dio. Maria non ha mai smesso, anche sotto la croce, di credere all’amore di Dio. Non ha imprecato sotto la croce, ma ha mantenuto fedeltà a quella Parola iniziale, quando Dio le ha chiesto di credere all’amore che aveva per lei.

Maria nei Vangeli parla poco. Qual è la cifra di fondo di questo suo parlare essenziale e moderato?

Collegherei molto in silenzio di Maria con la sua grande umiltà. Ascoltare vuol dire obbedire, i due verbi hanno la stessa radice latina. Ascoltare è avere a cuore più quello che dice l’altro, rispetto a quello che diciamo noi. Amare e coltivare il silenzio significa fare spazio, prima di tutto, a Dio e ai fratelli. Quindi il silenzio di Maria è eloquente, perché è vita che dice la sua umiltà. Chi è orgoglioso invece non sa tacere, perché non vuole anteporre nulla a sé stesso: ascolta solo la sua parola, ma così non entra nulla che possa modificare la sua vita. Maria fa il contrario: tramite il suo silenzio orante, fa entrare la vita di Dio in lei.

La società va verso un futuro incerto. Abbiamo incognite e attese insieme. Maria per nove mesi porta in grembo Gesù, attende. Quale messaggio ci trasmette questa attesa di Maria?

L’attesa può anche motivare a desideri che in realtà non si esplicano. Saper attendere, in realtà dovrebbe essere un saper tendere a, un tendere verso. Il messaggio per questi giorni allora è: verso che cosa è tesa la mia vita? Verso qualcuno o verso qualcosa? Maria era tesa verso Qualcuno, la sua attesa si riempiva di Qualcuno. Le mie corse, il mio affannarmi di prima, verso cosa mi ha portato? Verso qualcuno, che possono essere i miei famigliari, i miei amici o verso qualcosa, cioè gli oggetti?

Il dopo pandemia è ricco di speranze. Qual è la sua?

Penso molto al ruolo della donna in questo tempo. Il monastero è dentro un’area di grande silenzio, però, basta aprire una porta e si sente il rumore del Corso Vittorio Emmanuele che attraversa la città. In questi due mesi tante grida anche violente hanno smesso di sentirsi. Io spero che si sia ricuperato un po’ di tenerezza. È un linguaggio che abbiamo bisogno di riprendere insieme alla cordialità e all’attenzione. Dio ha avuto bisogno del cuore di una donna per offrire suo Figlio, Dio ha avuto bisogno di una madre per far nascere e per sostenere il corpo senza vita del Figlio. Senza le mani di una madre, nessuno può raggiungere Dio.

È bello pensare che Dio, in ogni donna, ci dona la tenerezza.

Maria presta il suo grembo a Dio, per difendere l’uomo anche dalle violenze verbali e gestuali che – prima della pandemia – dominavano le voci nelle strade. Ecco io spero che questo tempo ci aiuti a recuperare un linguaggio di tenerezza.

Cristina Vonzun

Chiesa cattolica svizzera

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