«Ho un indelebile ricordo del primo, drammatico, weekend dell’emergenza sanitaria in cui sono entrate in ospedale 50 persone malate di COVID-19. E poi sempre di più nei giorni successivi. Due o tre pazienti ogni giorno venivano trasferiti e intubati nei reparti di cure intense. E in seguito i decessi, sempre più numerosi, non solo tra i pazienti molto anziani e con altre patologie ». E’ una radiocronaca di guerra quella che la dottoressa Rita Monotti, primario di medicina interna a «La Carità» di Locarno, ci racconta al telefono.
«Però, in fondo, ce l’abbiamo fatta a superare la fase critica – prosegue con un sospiro – e in questo momento è la gratitudine che prevale nel mio animo, soprattutto per l’aiuto preziosissimo che abbiamo ricevuto da parte di medici e operatori sanitari provenienti da tutti gli ospedali dell’EOC».
Il nosocomio locarnese, come tutti sanno, è il centro per i pazienti di COVID-19 per il territorio ticinese. La dottoressa Monotti ha vissuto fin dall’inizio ogni istante di questa rapida trasformazione dettata dalla pandemia che, dopo la Cina e l’Italia, ha raggiunto velocemente anche la Svizzera italiana e il resto dell’Europa. Le abbiamo chiesto di raccontarci quei giorni concitati: «E’ iniziato un trasloco complesso da svolgere in tempi rapidissimi. Si è chiusa progressivamente la chirurgia, trasferita la maternità, la ginecologia e la pediatria, per far spazio ai nuovi posti di cure intense e di medicina COVID-19. Il Pronto Soccorso è stato spostato all’esterno dell’ospedale, prima in una tenda poi in prefabbricati». L’epidemia si è diffusa in Ticino in modo estremamente rapido.
La drammatica situazione che si è venuta a creare in nord d’Italia ha lasciato tutti attoniti. «Negli ultimi anni – prosegue Monotti – molti esperti hanno richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica su scenari pandemici di questa portata. Quindi non eravamo completamente impreparati. Ma nessuno si aspettava questa velocità di propagazione del virus. E’ stata una vera corsa contro il tempo per salvare il numero maggiore di vite umane».
In poco più di una settimana, l’ospedale regionale di Locarno, da 8 posti letto per le cure intense è arrivato ad averne 45. «Un miracolo – esclama la dottoressa Monotti – frutto di un incredibile lavoro di squadra portato avanti con determinazione dalla direzione con il supporto di tutti i capi servizio: tre riunioni al giorno per coordinare tutto il lavoro. Alla mattina si decideva di spostare un reparto, al pomeriggio c’erano già i camion e le ambulanze militari pronti per trasferire i pazienti e le attrezzature. Determinante ovviamente il supporto della clinica Moncucco di Lugano. Con il loro aiuto la pressione sulla nostra equipe è diminuita e abbiamo potuto così tirare un po’ il fiato».
Il COVID-19 inizialmente sembrava poco più di un’influenza che poteva presentare delle polmoniti con gravi complicazioni in persone anziane. Ma successivamente gli specialisti si sono resi conto che è invece una malattia molto più seria, sistemica, cioè di tutti gli organi. «Per esempio molti pazienti – prosegue Monotti – presentano durante il decorso dell’infezione insufficienza renale, problemi cardiaci o trombosi. Tutti aspetti che ora conosciamo ma che abbiamo imparato strada facendo confrontandoci con i vari esperti, in particolare con gli infettivologi. All’inizio c’era una grande insicurezza sulla prognosi e quindi il sentimento prevalente nei pazienti era la paura. Le persone rimangono comunque lucide quindi è necessario prendere delle decisioni insieme, mantenendo il contatto con le famiglie, sostenendo la speranza. I medici sono sempre confrontati con il fine vita. Ma l’alta mortalità di questa pandemia ha reso questo aspetto ancora più delicato».
Un’evidenza di questa emergenza sanitaria è la solitudine vissuta da molti pazienti, in particolare i più gravi. Il personale sanitario svolge la fondamentale mansione di essere il tramite con la famiglia. Le videochiamate sono state di grande aiuto soprattutto per i pazienti che non erano in grado di mantenere in modo autonomo i contatti con i propri cari. «Quando la situazione si faceva critica – continua Monotti – i parenti avevano la possibilità di venire in ospedale. E’ stata una cosa molto importante anche se evidentemente accompagnare alla morte ed elaborare il lutto in una situazione così, è molto più difficile. Purtroppo non per tutti c’è stata questa possibilità perché a volte gli stessi parenti erano ammalati o in quarantena. Queste sono state le situazioni più drammatiche che ho vissuto ». Gli specialisti di medicina palliativa sono stati presenti fin dall’inizio svolgendo il loro lavoro con professionalità ed umanità, ma un’altra figura è stata essenziale: il cappellano. Il vescovo di Lugano ha interpellato fra Michele Ravetta che si è reso subito disponibile.
Per coprire efficacemente l’intera giornata, compreso un picchetto notturno, mons. Lazzeri ha in seguito designato altri due sacerdoti: don Jean Luc Farine e don Marco Nichetti. «Una presenza fondamentale – ci confida Monotti – voluta anche dalla direzione dell’ospedale. Stanno svolgendo un lavora prezioso dentro l’equipe medica. Sono stati ben accolti e tutto il personale apprezza il loro operato. Un lavoro di squadra anche con gli assistenti spirituali laici aconfessionali presenti nel nosocomio. Sono stupita e commossa di come questa emergenza ha fatto cadere tanti pregiudizi mettendo in risalto le esigenze più profonde delle persone. Il personale sanitario interpella senza imbarazzo il sacerdote per chiedere la comunione, oppure segnala prontamente un possibile desiderio di un paziente d’incontrare un cappellano per il solo fatto di averlo visto guardare la santa messa alla televisione ». A Locarno si respira un clima di famiglia.
Questa pandemia ha innescato un cambiamento di mentalità, notato da molti, che ha reso più unita e solidale l’équipe curante. In Ticino la protezione del personale sanitario è stata efficace, anche se non sono mancati i contagi e alcuni decessi. «Una mia grande preoccupazione – conclude Monotti – era per i medici e gli infermieri più giovani. Mi sono venute in mente immagini di epidemie del passato, in altri Paesi, dove molti operatori sanitari alle prima armi, esercitando il loro lavoro, hanno perso la vita per curare i pazienti. Con l’espandersi del virus mi ha tranquillizzata l’evidenza che il decorso in soggetti giovani è meno grave. Ho visto studenti e medici assistenti spendersi in turni estenuanti di 12 ore. Commovente e vera l’espressione «occhi sorridenti» coniata perché l’unica parte del corpo non coperta dagli indumenti di protezione sono appunto gli occhi e spesso la comunicazione con i pazienti passa attraverso gli sguardi. E’ stata un’esperienza drammatica ma indimenticabile. Un medico assistente africano, desideroso di ritornare nel suo Paese d’origine per fare il chirurgo, congedandosi mi ha chiesto un attestato. Voleva avere un ricordo da conservare per mostrarlo ai suoi futuri figli e nipoti. Segno che queste settimane faticose hanno toccato tutti nel profondo».
Federico Anzini
Chiesa cattolica svizzera
https://www.catt.ch/newsi/rita-monotti-primario-a-la-carita-ripercorre-i-giorni-dellemergenza/