L’economista Pelligra: «La pandemia si combatte investendo nella protezione di chi sta peggio»

«Questo virus non è democratico» afferma Vittorio Pelligra, docente all’Università di Cagliari, firma de «Il Sole 24 ore» e membro del comitato scientifico della Scuola di Economia civile. Con lui affrontiamo il tema degli effetti globali del Covid-19 e delle misure necessarie per uscirne.

Prof. Pelligra, la crisi sanitaria del coronavirus mette in luce una profonda diseguaglianza tra paesi ricchi e paesi poveri, anzitutto sanitaria. Papa Francesco ha messo in guardia dall’idea di salvarsi da soli. Dal punto di vista dell’economia, davanti a questa crisi, cosa comporta volersi «salvare da soli»?

Questa pandemia fa aprire gli occhi su questioni che sono note da tempo ma che in una situazione di stress globale come questa, diventano più evidenti. La prima è l’interdipendenza. Siamo passati da una visione nella quale la salute di ciascuno era una faccenda personale o al massimo famigliare, ad una visione in cui la salute individuale è diventata una questione globale. Questo fatto ha due implicazioni principali: essendo un bene comune la salute dei singoli va attivamente protetta, come l’ambiente. La seconda implicazione è che la qualità di questa protezione, si misura con la qualità della protezione che riescono ad ottenere quelli che stanno peggio. In Italia, con grandi sacrifici, siamo riusciti contenere il contagio ad un livello inferiore rispetto alla soglia massima sopportabile dalle strutture sanitarie, perché questa soglia era abbastanza alta. In Italia ci sono 12 posti in terapia intensiva ogni 100 mila abitanti. In India la situazione è di 2 posti, mentre in Bangladesh lo 0,7 ogni 100 mila abitanti. Quindi non è vero che il virus è democratico perché l’impatto dell’epidemia è molto più forte dove si sta peggio. Però attenzione, perché questa disuguaglianza ha ripercussioni anche su chi sta meglio: se -ad esempio- nel Bangladesh non riescono a raggiungere l’immunità di gregge e il virus continuerà ad essere endemico, con il livello di permeabilità delle nostre frontiere, la possibilità di un contagio di ritorno, diventa elevatissima. Quindi, anche solo un ragionamento socio-economico, dovrebbe puntare ad investire nella protezione di chi sta peggio, perché la misura per la protezione globale è quella. Faccio un esempio: la forza complessiva di una catena è data dalla forza del suo anello più debole; per quanto possa essere robusta la catena, se si spezza un solo anello, la forza della catena viene meno. La forza complessiva di protezione non si misura sui Paesi più efficienti, ma su quelli che lo sono meno.

In questi giorni si auspica che la ripartenza sia più a misura d’uomo. Ci sono reali possibilità che da questo dramma si riparta con migliori propositi da attuare?

Il sociologo tedesco Ulrich Beck definisce questo processo come «catastrofismo emancipatorio». A volte capita che dal male possa, come effetto collaterale, scaturire il bene. Un esempio è quello dell’uragano Katrina che nel 2005 colpì la Louisiana e la città di New Orleans. Fu «un’alluvione razzista», come venne definita, perché a morire furono soprattutto poveri e neri, quindi americani colpiti più duramente di altri connazionali. Un fatto negativo che però ebbe un effetto emancipatorio: la gente aprì gli occhi e da quel dramma nacque il movimento della «Climate Justice», che sostiene come il cambiamento climatico sia anche e soprattuto un problema di giustizia.

Il G20 ha sospeso per un anno il debito dei paesi poveri. Che possibilità reali di rilancio economico di quelle realtà vede in questo provvedimento, tra l’altro invocato da Bergoglio stesso?

Il prof. Pelligra

La sospensione del debito è una risposta simbolica importante, ma quello che occorre fare è creare delle condizioni di sviluppo che sleghino questi paesi dalla dipendenza dall’Occidente. Purtroppo infatti, molti di questi Paesi sono in una trappola di povertà: gli investimenti che possono fare non producono gli effetti che ci sarebbero in altri contesti, per diverse cause, tra queste la corruzione dilagante e strette forme di dipendenza dall’Occidente. Il problema non è solo quello di una disponibilità di risorse, ma della ricostruzione del tessuto sociale, a partire dal capitale umano.

Il Papa ha lanciato la proposta di una forma di retribuzione universale. È un’utopia o c’è qualche possibilità concreta di fattibilità e di risultati?

Il Papa non ha proposto una forma di reddito universale, ma un reddito diffuso a chiunque ne sia privo. Bergoglio ha scritto ai movimenti popolari riferendosi a quelle persone che vivono di lavori precari. Ma la proposta non  riguarda solo i paesi più svantaggiati. Negli Stati Uniti, Greg Mankiw, professore di economia ad Havard, già consigliere economico dell’ex presidente G. W. Bush, ha sostenuto l’idea di dare, subito, fronte questa crisi, 1000 dollari a tutti gli americani, ricchi e poveri. Secondo Mankiw non si può perdere tempo per creare un meccanismo complesso che valuti veramente chi è nel bisogno e chi no: agire è prioritario. La proposta del Papa -secondo me- va nella direzione di rimettere sul tavolo della discussione il tema di un reddito di base che dovrebbe essere individuale, incondizionato e universale: va alla singola persona e non ad un nucleo, per evitare lo svantaggio che potrebbe toccare le famiglie numerose; deve essere incondizionato, fronte ad altre proposte che stanno circolando, come quella che vorrebbe elargirlo solo a chi non ha lavoro, con il rischio di creare un disincentivo a cercare occupazione: alla fine, infatti, chi trovasse lavoro verrebbe punito dall’eliminazione di questo sussidio. Poi deve essere un reddito «universale», cioè che arrivi a tutti, ricchi e poveri. L’equità vera prevede che tutti, per il semplice fatto di essere cittadini, abbiano accesso ad un diritto, quindi, se il reddito viene vissuto come un diritto e non in modo falsamente meritocratico, deve andare a tutti. Si tratta evidentemente di un obiettivo di lungo periodo, però il fatto che in questo momento il tema sia ritornato nel dibattito pubblico grazie alla dichiarazione del Papa, mi sembra molto importante.

«Senza una visione d’insieme non ci sarà futuro per nessuno…», ha avvertito Bergoglio domenica scorsa, festa della Misericordia. Per «visione d’insieme» si può intendere il legame forte tra giustizia sociale e questione ambientale?

Questa grande emergenza sanitaria ed economica non fa sparire quella ambientale, semmai sembra aver messo in luce che l’equilibrio tra l’homo sapiens e l’ambiente, si è definitivamente rotto. Qui c’è la sfida: o accettiamo un equilibrio precario nel quale queste pandemie si ripeteranno frequentemente, con esiti imprevedibili, oppure cerchiamo attivamente di creare le condizioni di un ri-equilibrio stabile, di un rapporto armonico con l’ambiente che ci ospita: è l’idea dell’ecologia integrale espressa bene dal magistero pontificio, in particolare nell’Enciclica «Laudato sì», terreno di incontro tra scienza e fede.

Cristina Vonzun

Chiesa cattolica svizzera

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