Oggi più che mai non lasciamoci rubare la speranza

La situazione nella quale ci troviamo tutti da più di un mese, con attività professionali ridotte all’osso se non sospese, impossibilità di partecipare a eventi culturali o sportivi, celebrazioni religiose senza fedeli e soprattutto l’invito di restare a casa, mi ha offerto la possibilità di belle e profonde meditazioni e riflessioni.

Non tutto il male vien per nuocere, mi viene proprio da dire. Seguendo con attenzione tutto quanto si afferma a proposito di questa pandemia e delle sue conseguenze, ho notato che c’è un atteggiamento molto importante, anzi, oserei dire vitale, che manca: la speranza. Quasi tutti gli esperti che sono intervistati ribadiscono che, passato questo brutto momento, la nostra quotidianità non sarà più come prima. Gli economisti prevedono uno scenario economico catastrofico, con un calo del PIL anche di due cifre percentuali.
Riflettendo su queste considerazioni mi sono detto: «ben venga una ripartenza diversa dalla precedente». Il mondo che abbiamo conosciuto prima dell’inizio di questa pandemia era veramente così idilliaco, così perfetto? A me non sembra.

Prima di proseguire in questa mia riflessione devo fare un passo indietro.
Il corpo umano è una delle macchine più complicate del mondo, che ci invia costantemente informazioni sulle imperfezioni che riscontra, ma per mancanza di tempo e giornate strapiene abbiamo smesso di ascoltarci. E così tendiamo a ignorare importanti segnali che il nostro fisico ci invia. Lo stesso lo possiamo dire per quanto riguarda il creato: è da diversi anni che ci sta mandando segnali sulla sua sempre più critica situazione, ma noi li abbiamo continuamente ignorati. Abbiamo, si preso coscienza, di un degrado ambientale sempre più marcato e dalle conseguenze disastrose, ma d’interventi radicali non ne abbiamo presi neppure uno. Li rimandiamo continuamente. Il Coronavirus non potrebbe essere l’estremo tentativo della terra di farci capire il baratro sul quale ci troviamo? Un virus invisibile a occhio umano, è riuscito a fermare quasi la totalità delle attività umane e a permettere al creato di riprendere fiato. Lo smog è diminuito in modo impressionante, i pesci sono tornati a nuotare là dove l’acqua ha ritrovato il suo colore naturale. La fauna e la flora, non più costrette in spazi angusti, stanno riconquistando anche le nostre città. È guardando a questa situazione che affermo la mancanza di speranza da parte della maggior parte degli specialisti che vengono intervistati in questo periodo. L’unica speranza che fanno emergere è quella di trovare presto un vaccino che risolva il problema, ma non ho sentito nessuno affermare che questa pandemia è un’occasione unica, e forse ultima, per ripensare il nostro modo di vivere, di lavorare, di produrre, di consumare e anche di relazionarci.

Il calo del PIL così come prospettato sarà davvero una tragedia? Io non lo credo: quand’era bambino, ed è passato quasi più di mezzo secolo, non vivevo in una grotta, non morivo né di fame e neppure di malattia, non giravo nudo. È vero che la televisione era in bianco e nero e senza telecomando, il telefono era appeso alla parete e per comporre i numeri bisognava far girare un disco. Non c’era la playstation ma si giocava tutti insieme
in strada senza traffico e senza troppi pericoli. I salari erano molto più bassi, ma pure i costi erano bassi: pagare il premio della cassa malattia e l’affitto non svenavano le persone. Si poteva sognare di acquistare una casa propria e molti quel sogno sono riusciti a farlo diventare realtà. Chi lavorava ci andava volentieri, anche se, magari, non era il lavoro dei suoi sogni, ma l’ambiente di lavoro era di solito piacevole.

Non si conosceva lo stress da prestazione, l’incertezza di essere licenziati con una telefonata o un sms come succede purtroppo oggi. Ebbene, mezzo secolo fa, il PIL svizzero era di sei volte più basso di quello attuale. Chiediamoci con sincerità: l’esplosione del PIL ci ha resi più felici? Non di quella felicità passeggera che deriva dal potersi permettere di avere tante cose, tanti prodotti, ma di quella felicità che rende lieto il cuore. A me non sembra. E allora ben venga che tutto non sarà più come prima. La speranza è proprio questa: un nuovo inizio che metta al centro l’uomo e il creato e non più il profitto e lo sfruttamento. Una nuova economia: un’economia di comunione. Un nuovo inizio che sappia far tesoro di tutte quelle espressioni di solidarietà, di condivisione, di aiuto che sono emerse in questo periodo.

La seconda mia considerazione al riguardo della palese assenza di speranza in questa straordinaria situazione che stiamo vivendo è che quest’assenza sia da collegare alla scelta che l’uomo occidentale ha compiuto nei riguardi di Dio: lo ha esiliato dalla propria vita. L’uomo occidentale si è eretto lui stesso a proprio Dio: è lui che decide chi può nascere e chi no (aborto); come nascere (tecniche di fecondazione) e quando si deve morire (eutanasia). Si è divertito, e lo continua a fare, clonando e modificando geneticamente animali, vegetali e quant’altro. Ha fatto della scienza, della medicina, della tecnica i suoi idoli e quando questi si rivelano fallibili viene meno anche la speranza. C’è una gran parte dell’umanità che vive quotidianamente sulla sua pelle situazioni ben più drammatiche e mortali del Coronavirus, pensiamo solo alla fame, alla malaria, alla dissenteria, alla mancanza di acqua potabile, eppure anche in queste situazioni la speranza non viene mai meno. Chiediamoci il perché.
San Paolo nella sua lettera ai Romani ha parole stupende a questo riguardo: «Giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo; per suo mezzo abbiamo anche ottenuto, mediante la fede, di accedere a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio. E non soltanto questo: noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato».

Io sono convinto che quando Dio tollera una situazione che porta con sé anche del dolore è perché vuol darci di più. È il grande mistero che abbiamo appena celebrato: Dio ha tollerato la morte in croce dell’Unico innocente, suo figlio Gesù, perché da questa morte ingiusta e dolorosa scaturisse per tutto il genere umano la salvezza e la vera libertà.
Non lasciamoci rubare la speranza, ma come cristiani facciamo nostra l’esortazione di san Pietro: «Siate sempre pronti a render conto della speranza che è in voi a tutti quelli che vi chiedono spiegazioni».

don Massimo Braguglia

Chiesa cattolica svizzera

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