Il virus dell'egoismo indifferente evocato da Papa Francesco

Nell’omelia di domenica 19 aprile, festa della Divina Misericordia, papa Francesco ha detto che «mentre pensiamo a una lenta e faticosa ripresa dalla pandemia, si insinua il rischio che ci colpisca un virus ancora peggiore, quello dell’egoismo indifferente». A questo proposito, sorgono alcune riflessioni. Posso io salvarmi da solo? Io sono davvero un essere limitato e inevitabilmente bisognoso di un altro che viene in mio soccorso? Oppure sono capace di essere del tutto auto-sufficiente? Se concepisco me stesso come qualcuno autosufficiente, che non ha bisogno di nessuno per raggiungere i propri obiettivi, che non ha bisogno di Dio né del prossimo, mi sto mettendo davvero in una posizione di forza oppure, senza volerlo, mi sto mettendo in una posizione di debolezza? E, allo stesso modo, se credo che io sia costitutivamente bisognoso dell’altro (di Dio e del prossimo), sono davvero in una posizione di forza come credo oppure, senza volerlo, di debolezza? Queste domande meritano una piccola riflessione. Anzitutto per la loro grande attualità: progresso scientifico e progresso tecnologico hanno convinto l’uomo moderno di aver raggiunto rispettivamente gli attributi divini dell’onniscienza e dell’onnipotenza – o di essere, per lo meno, sulla buona strada per raggiungerli. E periodicamente, episodi come quello che stiamo vivendo ormai da più di un mese ci ricordano violentemente che basta un virus dall’origine ignota a mettere in crisi i castelli socioeconomici che abbiamo costruito in decenni di duro lavoro. Queste esperienze ci ricordano che il futuro ci appartiene solo in parte, mettono in discussione le nostre certezze affettive e ci ricordano che per essere forti abbiamo bisogno dell’altro. Nel corso della storia del pensiero umano, il Cristianesimo è stato spesso accusato di diffondere l’equazione «uomo buono = uomo debole», ossia un uomo che si umilia fino all’annientamento di se stesso, dei propri desideri e delle proprie aspettative (si pensi al pensiero di Spinoza, di Nietzsche, di Marx o di Freud, ma ce ne sono molti altri). Al contrario, il Cristianesimo offre un’idea di individuo alternativa e interessante, da riprendere in considerazione: l’individuo come persona. Il modello di individuo che il Cristianesimo offre non è né chiuso in se stesso (come l’uomo medio moderno tende ad essere in Occidente), né del tutto livellato alle esigenze della collettività (come vorrebbero i distopici regimi socialisti). L’individuo cristiano è anche ambizioso e non auto-distruttivo, gode di un’ambizione sana: quella di perfezionarsi per raggiungere una felicità piena, una perfezione che si raggiunge attraverso l’esercizio delle virtù. Ma l’individuo cristiano sa anche che è proprio della natura umana essere aperti all’altro: Dio e il prossimo. La relazione non può che essere parte di questo perfezionamento. Ogni confine, ogni limite, ogni delimitazione può essere visto in un due maniere: come qualcosa di positivo o come qualcosa di negativo. Se vediamo positivamente i nostri limiti, possiamo concepirli come qualcosa che ci delimita, che dice chi siamo (a noi stessi, ancor prima che agli altri), ma anche come contatti, come porte verso l’esterno. Sforziamoci dunque a vedere l’uomo come qualcosa da perfezionare e, per questo stesso motivo, per sua natura aperto al prossimo.

Gaetano Masciullo

Chiesa cattolica svizzera

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