Antonietta Cargnel, già primario dell'ospedale Sacco di Milano: «Penso a Giobbe, uomo giusto che viene privato di tutto»

Antonietta Cargnel ha lavorato in prima linea all’Ospedale Sacco di Milano, durante gli anni dell’epidemia di HIV. Un virus, allora sconosciuto, che ha mietuto mondialmente centinaia di migliaia di vittime prima che si riuscisse a trovare una cura che ne riducesse, o quasi azzerasse, la mortalità.

Dottoressa Cargnel, come vive oggi – da medico e già primario di malattie infettive – lo scoppio di questa nuova pandemia? «Essere là sul campo è certamente differente. La consuetudine, però, che ho avuto di occuparmi di malattie infettive e i pochi e veloci ascolti dei miei collaboratori di un tempo, che ora lavorano in condizioni molto difficili e con turni massacranti, mi hanno in qualche modo reso partecipe, di ciò che sta accadendo in questa epidemia. La situazione dell’infezione da HIV era diversa: l’infezione era contratta a causa di comportamenti a rischio. Molti pensavano: «Beh! Quel che è successo in qualche modo se lo sono cercati. E’ stata colpa loro. Così scansavano gli infetti e li isolavano». Qui la situazione è diversa. Si tratta di una pandemia; l’infezione può prendere tutti e il numero degli infetti è molto alto. Certo, ora sappiamo che dobbiamo stare a casa, dobbiamo evitare la diffusione dell’infezione, ma all’inizio le persone non l’avevano capito. Ora, in qualche modo siamo tutti isolati. Purtroppo molte difficoltà che avevamo avuto allora, si sono ripetute e amplificate: mancanza di posti letto, scarsità di personale e di presidi. Quando superiamo un problema legato alle malattie infettive, pensiamo che finalmente, tutto è finito. Non programmiamo nulla, o ben poco, per il futuro in cui un’analoga situazione potrebbe raggiungerci».

Se dal punto di vista medico e sanitario poco o nulla è stato tesaurizzato, crede che questa volta l’esperienza possa divenire occasione per noi tutti per comprendere, migliorare, cambiare? «E’ sicuramente un tempo in cui abbiamo spazio per riflettere, per pensare a ciò che è essenziale, al senso della nostra vita. «In tutte le sue pagine la Bibbia – ci ricorda il biblista mons. Bruno Maggioni – è convinta che la vita sia molto di più della semplice esistenza. Paradossalmente il vangelo dirà che per avere la vita occorre anche saper perdere l’esistenza (cfr. Mc 8, 34). La vita è pienezza e intensità. Per questo il vocabolo ebraico è al plurale, appunto per sottolineare la pienezza e l’intensità: vita e salute, benessere, felicità, pace, amore, timore di Dio, comunione con Dio. Di tutti questi beni la vita non è soltanto il presupposto, ma la somma. La Bibbia è convinta che occorre allargare la vita, non solo allungarla». Ci ricorda, soprattutto, il legame fra Dio e la vita. Dio è il vivente, e la vita è il dono più prezioso che sgorga dal suo amore gratuito e fedele. Dono che avrà il suo compimento nell’incontro con Lui, incontro che noi, ora, siamo chiamati ad attendere, rimanendo in comunione con Lui. È una vita nuova quella che ci è stata promessa; è la stessa vita di Dio, una vita che dura per sempre».

La Bibbia quindi come scrigno da cui trarre insegnamenti, tesori… «Sì, guardiamo Giobbe: un uomo giusto, che di colpo è privato di tutto, anche della salute. Egli cerca di capire il perché della sua situazione. Le risposte dei suoi amici: il peccato, la prova di un Dio invidioso e persecutorio non può accettarle o, comunque, non sono una risposta alla sua domanda di capire il perché; ne discute con Dio. Arriverà così quasi ad accusarlo, dicendogli: tu non sei un Dio; sei uno che dall’alto degli spalti del castello tiri frecce contro il cerbiatto che passa e lo colpisci in parti non vitali perché non muoia subito, ma possa soffrire a lungo. Allora, se sei così, io invoco un Goel, un vendicatore che mi difenda. Alla fine del libro è Dio stesso che parla a Giobbe; non gli dà delle risposte ma gli fa delle domande: dov’eri tu quando ponevo le fondamenta della terra? Cosa sai tu del mare, della luce, della tempesta, del mondo degli animali ? Di fronte allo splendore e all’inquietudine della natura, Giobbe riconosce la differenza tra sé e Dio, comprende di non essere lui il padrone del senso: «Mi metto la mano sulla bocca. Ho parlato una volta, ma non replicherò, due volte ho parlato, ma non continuerò». Egli dà la risposta pratica del credente in cui si dischiude un modo differente di sentire e di pensare mentre la sofferenza che sta vivendo, la morte, il male rimangono incomprensibili. E mi piace qui, citare ancora una volta mons. Maggioni: «Il libro di Giobbe non dissolve il mistero di Dio e della vita (come sarebbe possibile?), ma suggerisce che gli si può andare incontro, secondo un fiducioso abbandono. Anche questa è la speranza biblica, che non è illusione come per l’uomo greco, ma fiducia e attesa. La fiducia poggia sull’alleanza fedele, ostinata di Dio, che anche quando non sembra tale, si realizza attraverso strade impensabili e per noi imprevedibili»».

Corinne Zaugg

Chiesa cattolica svizzera

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