Un'opinione sul dibattito sui preti sposati e su un eventuale discussione riguardo all'ordinazione delle donne al presbiterato

Si è svolta lunedì sera, presso il Centro culturale Alzavola, la conferenza di don Arturo Cattaneo sul valore del celibato nella Chiesa cattolica. Di seguito riportiamo la riflessione dello studioso.

L’emergere di tanti abusi sessuali da parte di preti, l’acuirsi della mancanza di vocazioni sacerdotali e la crescente consapevolezza della pari dignità di uomo e donna sembrano motivi seri, affinché la Chiesa si apra alla possibilità d’ordinazione anche di donne e di persone sposate. A proposito dell’obbligo del celibato, si fa anche notare che, non essendo un fatto dogmatico ma solo disciplinare, potrebbe essere modificato.

Di fatto, nel documento conclusivo del Sinodo sull’Amazzonia, che Papa Francesco ha invitato a leggere integralmente, affinché «tutta la Chiesa si lasci arricchire e interpellare da questo lavoro» (Querida Amazonia, n. 4), si afferma: «È necessario che la donna assuma con maggiore forza la sua leadership in seno alla Chiesa e che la Chiesa riconosca ciò e lo promuova… anche nelle istanze di governo» (Documento conclusivo del Sinodo sull’Amazonia, n. 101). Inoltre quel documento propone l’ordinazione di uomini sposati per «sostenere la vita della comunità cristiana attraverso la predicazione della Parola e la celebrazione dei Sacramenti nelle aree più remote della regione amazzonica» (n. 111). Fra le altre numerose proposte in tal senso, riguardanti anche l’apertura al sacerdozio femminile (iniziando come primo passo con il diaconato femminile) si può ricordare quanto emerso nella prima sessione del Cammino sinodale appena iniziato in Germania e che si protrarrà per circa due anni.

Alla vista di tutto ciò è risultato sorprendente che nella Esortazione apostolica postsinodale Querida Amazonia Papa Francesco non abbia accolto nessuna delle suddette proposte. A proposito del ruolo della donna nella Chiesa il Papa «invita ad allargare la visione per evitare di ridurre la nostra comprensione della Chiesa a strutture funzionali. Tale riduzionismo ci porterebbe a pensare che si accorderebbe alle donne uno status e una partecipazione maggiore nella Chiesa solo se si desse loro accesso all’Ordine sacro. Ma in realtà questa visione limiterebbe le prospettive, ci orienterebbe a clericalizzare le donne, diminuirebbe il grande valore di quanto esse hanno già dato e sottilmente provocherebbe un impoverimento del loro indispensabile contributo» (n. 100).

Ancora più chiaramente si è pronunciato il Papa nel recente libro-intervista con don Luigi Maria Epicoco San Giovanni Paolo Magno, ribadendo la sua piena sintonia con Giovanni Paolo II nel dichiarare definitivamente chiusa la questione circa la possibilità del sacerdozio femminile (cfr. pp. 93-94). Egli ha inoltre espresso il suo forte apprezzamento per il dono del celibato affermando: «Sono convinto che il celibato sia un dono, una grazia e, camminando nel solco di Paolo VI e poi di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, io sento con forza il dovere di pensare al celibato come a una grazia decisiva che caratterizza la Chiesa Cattolica latina» (p. 75).

Ora, se si vuole evitare di dare l’impressione di una rigida e anacronistica chiusura da parte della Chiesa, occorre spiegare le ragioni che l’hanno portata ad affermare con tanta decisione l’esclusione definitiva delle donne dal sacerdozio e il valore del celibato sacerdotale. Rileggendo i diversi testi magisteriali al riguardo, si osserva che in fondo il motivo per entrambe le affrmazioni ha la stessa radice e cioè la fedeltà a Cristo. Il sacerdote è infatti chiamato a rendere presente Cristo, Capo e Sposo della Chiesa. Il sacerdozio cristiano è quindi «un segno che deve essere percettibile e che i fedeli devono poter riconoscere facilmente» (Dichiarazione Inter insignores, 1976, n. 5). In questa prospettiva si comprende facilmente la necessità – o speciale convenienza – che coloro che rendono presente Cristo siano, come lui, uomini e celibi.

Il Concilio Vaticano II aveva riaffermato il valore del celibato sacerdotale, segnalando i «molteplici rapporti di convenienza con il sacerdozio» e aveva pregato «tutti i fedeli di avere a cuore questo dono prezioso del celibato sacerdotale, e di supplicare Dio affinché lo conceda sempre abbondantemente alla sua Chiesa» (n. 16). Un approfondimento della riflessione su tali molteplici di rapporti di convenienza venne offerto dall’Enciclica di Paolo VI Sacerdotalis caelibatus (1967), nella quale si parla della «somma convenienza che in tutto il sacerdote riproduca l’immagine di Cristo e ne segua in particolare l’esempio» (n. 31). Quest’idea venne ribadita con forza nell’Esortazione apostolica Pastores dabo vobis (1992) di Giovanni Paolo II, affermando che «il sacerdote è chiamato ad essere immagine viva di Gesù Cristo Sposo della Chiesa (n. 22, cfr. anche nn. 12, 43 e 72). Nella stessa linea si afferma: «I presbiteri sono chiamati a prolungare la presenza di Cristo, unico e sommo pastore, attualizzando il suo stile di vita e facendosi quasi sua trasparenza in mezzo al gregge loro affidato… Essi sono, nella Chiesa e per la Chiesa, una ripresentazione sacramentale di Cristo Capo e Pastore» (n. 15). Si osserva inoltre che «la Chiesa, come Sposa di Cristo, vuole essere amata dal sacerdote nel modo totale ed esclusivo con cui Cristo Capo e Sposo l’ha amata. Il celibato sacerdotale, allora, è dono di sé in e con Cristo alla sua Chiesa ed esprime il servizio del sacerdote alla Chiesa in e con il Signore» (n. 29).

Questa logica «sponsale» che caratterizza così profondamente il sacerdozio cristiano è stata messa bene in luce anche dall’Esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis (2007) di Benedetto XVI, quando osserva che «dall’essere essenzialmente destinato alla celebrazione dell’Eucaristia, ad attuare cioè il supremo atto di donazione di Cristo alla Chiesa, sua Sposa (»Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo…»), deriva l’intrinseca logica sponsale del sacerdozio. Tale logica non può restare un elemento esterno al sacerdote, poiché egli non è un mero strumento passivo di un’azione divina. È invece chiamato ad integrare la sponsalità di Cristo nella propria vita; è chiamato a donare Cristo, donando pienamente se stesso a tutti senza riserve, identificandosi con Cristo stesso» (n. 24).

Tutto ciò chiarisce il senso del celibato vissuto da Cristo, in sintonia con il suo essere Sposo della Chiesa, la sua missione e piena donazione a tutti. È certamente questo anche il senso del celibato sacerdotale. A proposito della citata «ripresentazione sacramentale di Cristo» occorre tuttavia riconoscere che l’essere uomo e non donna ha una visibilità e quindi rilevanza maggiore rispetto al fatto di essere celibe e non sposato. Di conseguenza, la Chiesa parla di «necessità« per il primo aspetto e di «convenienza» per il secondo.

Don Arturo Cattaneo

Chiesa cattolica svizzera

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