Don Antonio Mazzi, il prete pazzo di Dio e dei suoi ragazzi

di Pier Luigi Vercesi

La vicenda umana di don Antonio Mazzi sembra scritta da Gabriel García Márquez: una storia perennemente sospesa in tragiche realtà magicamente trasformate in ritorni alla vita. Contemplando i suoi primi novant’anni, questo «pazzo» di Dio, come il colonnello Aureliano Buendía di fronte al plotone d’esecuzione in Cent’anni di solitudine, racconta di quando lo condussero a conoscere l’acqua. Era il 1951 e il Po stava inghiottendo cinque paesi aggrappati agli argini ferraresi. Fu il battesimo di un ventunenne ancora adolescente, un mascalzone veronese cresciuto senza il padre (morto di broncopolmonite quando lui aveva appena 15 mesi), allevato da una madre beghina che mai smise il lutto e campò malamente la famiglia ricamando lenzuola e fazzoletti.

Antonio e il fratello, nato 5 mesi dopo la disgrazia paterna, schivarono una vita di zappa e mungiture studiando nei convitti dei preti per bambini poveri. Ma Antonio, del suo, ci metteva poco. Pessimo studente, in terza media venne bocciato per cattiva condotta: con l’elastico agganciato a indice e pollice in una rudimentale fionda centrò l’occhiale della prof di matematica. Odiava preti e giaculatorie, non sapeva che farsene della vita, ma imparava a scrivere e a cantare. Lo prese sotto la sua ala protettrice il prof di italiano e lo salvò insegnandogli a suonare la pianola. Non un Natale o una Pasqua a casa, tanto non c’era nulla da mangiare. Però gli fecero frequentare il liceo classico, lasciandolo grufolare in biblioteca a caccia di letture proibite: il Cantico dei cantici, ad esempio (troppo sensuale). Avrebbe fatto l’insegnante di lettere, guadagnandosi l’università come educatore nella Città del Ragazzo di Ferrara, nata da un’idea del vescovo di quella città rossissima, dove il seminario era rimasto senza aspiranti preti.

Fu lì che fece la conoscenza dell’acqua, nella terribile inondazione del ’51. Il Po ululava nella notte, i pompieri gli chiesero di salire sul barcone e di occuparsi dei bambini strappati ai flutti. Ce n’era uno di sei mesi, altri di due, quattro anni, annichiliti dallo spavento. Il mattino dopo si disse: «Ho sbagliato a leggere la vita, devo leggerla meglio». Finita l’emergenza andò dal vescovo per farsi prete, ma non di parrocchia, uno che aiuta gli altri. «Prima devi convertirti!». «Mi convertirò», rispose. Dio non l’aveva chiamato, l’aveva tirato dentro. Il nonno socialista scosse la testa: «Possibile che non trovi un altro mestiere?». «Nonno, bastardo come sono, è inutile che metta su una famiglia mia».

La Città del Ragazzo di Ferrara accolse centinaia di bambini rimasti senza genitori. Pomeriggio e notte Antonio si occupava di loro, la mattina all’alba percorreva 13 chilometri in bici per andarsi ad addormentare nelle aule di teologia. Divenne prete senza troppo sofisticare, tanto non c’era concorrenza in zone dove il Primo maggio, da Comacchio a Ferrara, non si vedeva la strada, tante erano le biciclette di chi sfilava con il pugno alzato. Alla prima Messa pasquale, l’ormai don Antonio aveva 5 donne in chiesa. E per fortuna il vescovo l’aveva autorizzato a non chiedere, a chi si confessava, se era comunista (era prevista la scomunica). Continua a leggere…

Chiesa cattolica svizzera

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