Sopravvissuta agli orrori dell'ISIS ora chiede il riconoscimento del genocidio Yazidi

Eman Abdulla è stata rapita nell’estate 2014 e per nove mesi ha vissuto nelle mani dei jihadisti. La giovane è stata stuprata, venduta, ridotta in schiavitù. Oggi lavora per una associazione che si batte per salvare le giovani vittime delle violenze, vincitrice del Premio Madre Teresa 2019. E lotta per il riconoscimento internazionale del dramma vissuto dal suo popolo. 

Oggi Eman lavora per una ong con base a Dohuk, nel Kurdistan irakeno, che si occupa degli yazidi sfuggiti alla prigionia sotto l’Isis. In questi anni ha liberato e curato 3515 persone catturate nel 2014 dai miliziani, fra i quali vi sono 1983 bambini, 1193 donne e 339 uomini. La sua associazione è fra quanti hanno vinto l’edizione 2019 del Premio Madre Teresa. Ad accogliere l’ambito riconoscimento, durante la cerimonia ufficiale che si è tenuta il 3 novembre scorso, vi era la giovane Eman, che ha raccontato la propria esperienza e lanciato un appello per il riconoscimento del «genocidio» subito dal suo popolo in questi anni. Ecco, di seguito, la sua testimonianza: 

«Sono la voce delle ragazze yazidi, ridotte in schiavitù dall’Isis. Sono una ragazza originaria del Sinjar. Da cinque anni vivo in una tenda del campo profughi di Sharya, alla periferia di Dohuk, nel Kurdistan irakeno, che accoglie sfollati a causa della guerra. Avevo solo 13 anni quanto sono stata rapita con altri sei membri della famiglia, fra cui mia madre, mia sorella di 12 anni e un fratellino piccolo. Sono stata ridotta in schiavitù, venduta al mercato pubblico, ho trascorso 12 mesi in cattività e venduta tre volte. Sono stata stuprata, picchiata, convertita a forza all’islam e ridotta a schiava del sesso. Sono stata riscattata dall’ufficio dell’ex Primo Ministro del Kurdistan, oggi presidente, e dopo tre giorni di cammino nel deserto mi hanno soccorso e portato nella provincia di Ninive. Mi hanno visitato in un ospedale di Dohuk e poi trasferita al centro di Sharya, dove ho potuto riunirmi alla famiglia. Oggi viviamo al riparo di una tenda. Negli ultimi quattro anni abbiamo continuato a vivere nel centro, dove i problemi restano molti. Le possibilità di spostamento sono limitate perché nella zona vi è anche una base militare e non possiamo fare ritorno nelle nostre case. Vivo sopraffatta da una paura costante. Dalla paura di essere vittima di nuovi attacchi, di essere rapita, torturata, ridotta in schiavitù. Di notte mi sveglio ancora di frequente urlando, assalita dagli incubi, e invocando aiuto. […] 

Il 4 agosto scorso, durante un incontro a Dohuk per celebrare il quinto anniversario del genocidio Yazidi, ho parlato di fronte a una folla di mille persone, fra le quali vi era anche il presidente del Kurdistan irakeno Nechirvan Barzani, e il leader spirituale yazidi Meer Hazim Beg. Oltre a loro vi erano anche funzionari delle Nazioni Unite, diplomatici stranieri. A tutti loro ho chiesto di mettere fine al genocidio yazidi e lavorare nella direzione di una ricostruzione del Sinjar, assicurando al contempo il ritorno in condizioni di sicurezza degli sfollati nelle loro case. Ho chiesto alla comunità internazionale di aiutare a risolvere le controversie politiche tuttora in atto fra esecutivo centrale irakeno e governo regionale del Kurdistan e di definire lo status del Sinjar, in accordo all’articolo 140 della Costituzione irakena, in base al quale si dovrà svolgere un referendum per stabilire il destino finale di Sinjar. Ho inoltre aggiunto che le forze Peshmerga (i combattenti curdi, protagonisti della lotta contro l’Isis in Iraq) sono state di grande aiuto e, assieme all’esercito irakeno, dovrebbero essere in grado di garantire un ritorno sicuro degli yazidi nella loro terra. 

Il 3 agosto scorso il Parlamento regionale del Kurdistan ha votato il riconoscimento del genocidio yazidi, un passo molto importante per tutti noi. La comunità internazionale dovrebbe seguire il passo compiuto dalla regione del Kurdistan, riconoscere quanto è successo a noi yazidi e definirlo genocidio e designare il 3 agosto quale Giornata della memoria del genocidio yazidi. Un passo di questo genere sarebbe tanto importante, quanto lo è stato ciò che è avvenuto a noi yazidi. 

Asia News/Red

Chiesa cattolica svizzera

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