Al centro del briefing sul Sinodo la responsabilità di tutti per la casa comune

Le sofferenze delle popolazioni amazzoniche e i rischi per il pianeta al centro dell’odierno briefing in Sala Stampa vaticana sul Sinodo per l’Amazzonia. Oggi è «l’ultimo giorno dei Circoli Minori» che lavorano sulla prima bozza del documento finale: «un lavoro che richiede confronto e proporre delle soluzioni», spiega padre Giacomo Costa, segretario della Commissione per l’Informazione. Tutto questo verrà, poi, affidato agli incaricati della stesura del documento, il relatore generale, i segretari speciali con l’aiuto degli esperti e in confronto con la Commissione per la redazione del documento. Queste persone, ricorda padre Costa, da domani si metteranno al lavoro per offrire la versione finale del documento che poi sarà votata.

Ad accendere i riflettori sull’impatto dell’arrivo delle centrali idroelettriche nelle regioni amazzoniche è stata Judite da Rocha, coordinatrice nazionale del Movimento delle vittime delle dighe, proveniente dal Brasile. Chiede, prima di tutto, di non pensare che queste centrali producano energia «pulita» perché si deve pensare ai danni per le popolazioni locali, per i fiumi, per la natura. Prima arriva sempre la centrale idroelettrica, poi l’estrazione mineraria, le industrie. Ma in particolare il focus delle sue parole è sulle conseguenze per le popolazioni autoctone: le comunità tradizionali vengono disperse, «non esistiamo, non siamo indennizzati dopo questi interventi», racconta. E ancora, ci sono malattie mentali, depressioni, suicidi. A volte si riconoscono diritti alle popolazioni indigene, altre volte no, anche se si tratta della stessa azienda. Per le donne, poi, si parla di una doppia violenza: il loro lavoro non viene considerato, basti pensare a chi è casalinga o chi cerca piante per fare medicinali. Per non parlare dei problemi di molestie sessuali. Ma anche le città soffrono dell’impatto delle costruzioni di queste dighe: ci sono regioni che hanno spiagge sui fiumi e tutto questo viene eliminato quando si costruisce una centrale idroelettrica. Poi subentra il problema di dove vivere, perché stiamo parlando di popolazioni che da sempre hanno vissuto lungo il corso dei fiumi.

La natura, l’essere umano e il ruolo della Chiesa sono le tre parole-chiave dell’intervento di monsignor Héctor Miguel Cabrejos Vidarte, arcivescovo di Trujillo, presidente Conferenza episcopale peruviana e presidente del Consiglio episcopale latinoamericano, il CELAM. Nel suo intervento si richiama all’amore per la natura di San Francesco, ripreso anche da Papa Francesco nella Laudato si’, ed esorta a riflettere sulla dignità dell’uomo. «Non bisogna parlare – ricorda – di questi argomenti come se riguardassero solo l’Amazzonia, si tratta di una chiamata a una fratellanza universale». Rispondendo a una domanda, esprime l’intenzione che si crei un organismo ecclesiale specifico per mettere in pratica le decisioni prese al Sinodo, per affrontare i temi della regione amazzonica. Ricorda anche il lavoro che si sta facendo per ristrutturare il CELAM e infine si sofferma anch’egli sull’emergenza ambientale e i cambiamenti climatici, sottolineando «il ritardo» della comunità internazionale nell’applicare l’Accordo di Parigi. Lo sguardo è rivolto alla Cop25 che si terrà a dicembre in Cile, dove sarà importante insistere sull’impegno per la casa comune.

Molto concentrato sul problema del cambiamento climatico è l’intervento di monsignor Karel Martinus Choennie, vescovo di Paramaribo, in Suriname, dove vivono nativi e discendenti di schiavi, uno dei Paesi più «verdi»: il 92% è costituito dalla foresta originaria. «Se la deforestazione, in Amazzonia, aumenterà anche solo del 5%, avrà un effetto disastroso e irreversibile», afferma invocando cambiamenti negli stili di vita, come ad esempio nel consumo di carne e nel ricercare un’economia di solidarietà perché, dice, le ricchezze arrivano in Occidente, abbandonano il nostro Paese e non lo rendono migliore. Serve, quindi, creatività a livello politico per cercare soluzioni.

«L’Amazzonia assomiglia moltissimo al bacino del Congo» rimarca, intervenendo al briefing, il cardinale Fridolin Ambongo Besungu, arcivescovo di Kinshasa, in rappresentanza proprio di quella porzione d’Africa che tante analogie ha con le regioni amazzoniche. Il porporato chiama in causa tutti: «tutti abbiamo una responsabilità per la nostra casa comune» e «nessuno può dire ‘io non c’entro’», afferma, ricordando che l’inazione vuol dire collaborare al pericolo. Ma ad essere responsabili sono anche i governanti dei Paesi occidentali senza dimenticare la Cina, sostiene riferendosi alle grandi compagnie minerarie. La Chiesa fa del suo meglio ma ha problemi per mancanza di persone, prosegue il porporato aprendo orizzonti di speranza ed esortando comunque ad osare. In Congo, racconta, è stata fatta un’inculturazione del Vangelo e l’Eucaristia si vive come «un’autentica festa».

(Vatican News)

Chiesa cattolica svizzera

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