Amazzonia, nell’Ecuador del nord dove il petrolio avvelena aria e acqua e la gente si ammala di cancro

La terra è giorno dopo giorno più sterile a Pacayacu, nell’Amazzonia del nord dell’Ecuador, come sterili rischiano di diventare gli uteri delle donne che abortiscono prematuramente i bambini che portano in grembo. La radice di questo scempio ha un nome: contaminazione. Gas, minerali, petrolio avvelenano l’aria e l’acqua, seccano i raccolti, uccidono gli animali e fanno ammalare le persone di tumore e infezioni. Tutto quello che per i Paesi sviluppati rappresenta una ricchezza e una fonte di guadagno per i nativi di questa terra è divenuto una maledizione.

In particolare in questo barrio, dove l’umidità entra nelle fibre dei vestiti e dove zanzare di forme e colori sconosciuti si appiccicano impavide sulla fronte e sulle braccia, non si conta il numero di persone alle quali è stato diagnosticato un cancro, oppure funghi alla pelle, morbi agli occhi, mal di stomaco e di testa. Un esercito di «afectados» che già soffre la perdita di vacche, cavalli, polli e l’essiccamento delle piantagioni che rappresentano l’unica fonte di sostentamento.Solo quattro mesi fa è avvenuto l’ennesimo «derrame», la perforazione di uno degli innumerevoli oleodotti di rame che feriscono come una cicatrice il volto verde cangiante della vegetazione amazzonica fino alla costa. Era esattamente il 18 maggio 2019 quando è avvenuto: lo riporta una scritta con un pennarello bianco sopra la stessa tubatura arrugginita che presenta ancora i segni del cedimento. Il petrolio è fuoriuscito copioso e le piogge lo hanno trasportato da un fiume all’altro avvelenando l’acqua. Undici abitazioni che raccolgono famiglie di tre generazioni sono rimaste senz’acqua potabile da allora.

Il governo, raccontano gli abitanti, aveva promesso di provvedere portando quattro bottiglioni di acqua a settimana ciascuno, ma, tra presunti problemi di trasporto e altre scuse e rimandi, in ogni casa ne è arrivata al massimo una.

A ribellarsi e ad alzare la voce c’è adesso la «Junta parroquial». Non si tratta di un gruppo ecclesiale ma di un organismo governativo eletto dal voto popolare, che rappresenta la massima autorità della comunità e mantiene una leadership nello sviluppo sociale ed economico. I suoi membri in questi mesi hanno spedito lettere e petizioni al Ministero dell’ambiente che continua a garantire una collaborazione, ma di fatto fa orecchie da mercante, come dicono dalla giunta.

Quella dei nativi con le autorità «è la lotta di Davide contro Golia», affermano. Solo che, in questo caso, non c’è alcun sassolino nella fionda che possa far sperare in una vittoria dei più deboli. Perché? «Perché prevale la paura», racconta la presidente Flor Jumbo Campoverde. «Nessuno porta a termine la lucha, la lotta, perché nessuno riesce a denunciare. Ci dicono: tu denunci? Io faccio del male a tuo marito, ai tuoi figli. Siamo sotto minaccia continuamente».

Bellezza tipicamente latina, studi legali alle spalle, Flor parla in piedi nel cortile di una di queste povere case. Le chiamano fincas, ville, ma sono un ammasso di tavole di legna e lamiere che a malapena riescono a riparare dal sole cocente e o dagli acquazzoni notturni. Intorno a lei, ad annuire durante la sua arringa, ci sono tante donne, perlopiù anziane, che indossano abiti sporchi, senza forma, con colori abbinati a caso. Donne che però risultano belle per la dignità che traspare dai loro occhi, per il non volersi piegare e stare zitte, per il voler combattere per la loro vita e quella dei loro familiari. 

In infradito, non curanti del fango paludoso, dei ragni e delle formiche così robuste da trasportare intere foglie, superano la barriera di striscioni con la scritta «Peligroso» intorno al fiume e conducono fino al punto in cui si è formata una «piscina» di petrolio. «Sembra che l’acqua sia pulita, ma guardate qua», dice una che con un bastone scava nella terra fino a far uscire l’oro nero.

Flor fa una risata cinica: «Ci hanno detto che era tutto risolto, il petrolio è ancora là». Lei, la Erin Brockovich di Pacayacu, chiede aiuto ai giornalisti «stranieri», «perché quelli ecuadoriani sono tutti manovrati dal governo, ci sono stati servizi e inchieste ma nessuno è disposto a collaborare pienamente». 

«Vogliamo che si difenda la vita», dice. «Viviamo una situazione disperata, ci sono persone malate di cancro a causa dell’inquinamento. C’è una famiglia che abita proprio qua vicino: su 11 figli, sei sono malati. Nel terreno non cresce nulla, il petrolio brucia le piante. I bovini vengono comprati a prezzi stracciati perché dicono che sono contaminati. La gente è senza lavoro e, paradossalmente, finisce per chiedere un posto alle imprese che distruggono il territorio. Non possiamo neanche donare il sangue perché ci dicono che noi di Pacayacu portiamo dentro agenti chimici». 

«È il momento di dire basta a tanta contaminazione. La compagnia petrolifera non controlla l’oleodotto da 40 anni. È necessaria una dichiarazione urgente per modificare il cambio di tubature. Vogliamo un po’ di sostegno e di giustizia…», grida Flor.

«Stanno attendando al diritto alla vita», interviene Yolanda, avvocatessa, assiste la madre anche lei affetta da un tumore al primo stadio. «È una morte lenta per tutti gli abitanti, stiamo morendo tutti poco a poco e anche male, perché morire di cancro non è morire degnamente. È morire nella sofferenza…». «È incredibile – aggiunge – che il nostro presidente vada all’estero a parlare di salvare l’Amazzonia, di salvare il pianeta, e poi non ha minima considerazione dei malati che ha davanti agli occhi. Perché non chiede aiuto internazionale per salvare l’Amazzonia che è il polmone del mondo?». 

Le due donne, a nome della comunità, si dicono grate alla Chiesa che tramite il Vicariato di Sucumbíos sostiene le loro battaglie e forma i campesinos analfabeti per consapevolizzarli sui diritti di cui godono. Come lavoratori e come esseri umani. 

In particolare è il Comitato anti-contaminazione che fa base nel Vicariato ad impegnarsi attivamente. I rappresentanti sono tre: Santos Lapo, Javier Portilla, Macario Castillo. Contadini anziani che hanno imparato da adulti a leggere e scrivere, ma che hanno forza e carisma per portare avanti questa «lucha», tenendo come guida le parole di monsignor Gonzalo López Marañón, il vescovo morto nel 2016 in Angola considerato un eroe e un santo dalla gente del posto. «La Chiesa non può camminare con un piede solo ma con due» che sono l’evangelizzazione e la pastorale sociale, insegnava il presule ai campesinos che oggi sono impegnati su più fronti: a Pacayacu come in tutte le altre zone contaminate. 

«Siamo colpiti in tutte le aree», spiega Santos, presidente del Comitato. «Da un lato, c’è il glifosato (potente pesticida, ndr) che ha avvelenato l’aria, la terra e l’acqua; dall’altro, abbiamo le fuoriuscite di petrolio, il gas bruciato dai «mecheros»», questi enormi camini con in cima una fiamma sempre accesa. Ce ne sono 384 in tutta la regione, forse anche di più, spiegano gli abitanti. Bruciano metano, butano e altri gas: avvicinandovisi l’aria è rarefatta, il calore insopportabile come anche la puzza. Le foglie degli alberi di banano e cacao presentano macchie grigiastre e gli insetti si alzano in volo per poi cadere dopo pochi secondi sul terreno. 

«Tutto questo va a scapito delle comunità che vivono nei dintorni. A farne le spese sono soprattutto i più poveri che non hanno accesso a buone cure – sottolinea Santos -. Presentiamo richieste e studi scientifici che dimostrano come bisogna cambiare il modo di lavorare, di agire, ma veniamo ignorati».

«Solo uno ci ascolta», fa eco Macario, «è il Papa che combatte al nostro fianco. La sua Laudato si’ è lo strumento che ci impegna in una lotta tenace per recuperare la nostra sovranità e i diritti ambientali che ci appartengono. È possibile un’Amazzonia diversa dalla vita. E avere un Papa che ci sostiene così esplicitamente ci dà la forza per realizzare questo obiettivo».

(Salvatore Cernunzio / Vatican Insider)

Chiesa cattolica svizzera

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