Scuola Samos

«Vengo dall’Afghanistan», le chiedo come è stato il viaggio per arrivare qui a Samos. Mi chiede di ripetere la domanda, penso sarà per il mio inglese, mentre no, non è così. Vuole capire bene per poter dare una risposta precisa e completa, che non ci siano interpretazioni ma solo fatti. Parole giuste, come quelle di chi sa che ha una sola occasione, e vuole giocarla al meglio. «Ho scalato le montagne in Afghanistan ed è stato molto difficile. E poi abbiamo camminato molto. In Turchia abbiamo preso una barca ed è stato molto pericoloso, di notte era tutto nero ed ero impaurita. Abbiamo finito la benzina, è arrivata la polizia che ci ha aiutato. Oggi vivo nell’area attorno al campo ufficiale, nella Jungle. È molto brutto perché non abbiamo i bagni. È dura vivere lì». Fa una pausa, guarda Nicolò, non cerca sostegno o conferma, vuole essere sicura che sia lì accanto. Poi riprende: «Ci sono topi, serpenti e sono molto impaurita. Non è cosa buona che i bambini vivano in questa condizione. Un serpente mi può mordere e posso morire».
Cambio discorso, le chiedo della scuola che frequenta, messa su dalla ONG «Still I rise».
«Mazì è un ottimo posto per imparare l’inglese, il greco e tante altre cose. La mia materia preferita è l’inglese, perché tutti sanno l’inglese e se miglioro posso risolvere i miei problemi. Qui a Mazì è bello! Ci sono ottimi insegnanti e posso avere molti amici».
«Cosa sogni per il tuo futuro?», chiedo.
«Voglio andare in Germania e voglio diventare un medico perché voglio aiutare le persone. Voglio curare le persone malate».

Mozhda ha 12 anni, quasi 13 tiene a sottolineare. È intelligentissima, brillante, dalle idee chiare. Un sorriso disarmante e occhi smeraldo. È lei il prototipo del migrante che l’Europa teme? Forse l’Europa la teme per la sua voglia di afferrare la vita e viverla. E allora fa bene a temerla. «La vita è un dono che noi facciamo agli altri. Se credi nel buono che è in lui, qualsiasi bambino torna a fiorire». Scrive Nicolò Govoni nel suo ultimo libro, e come per Hammudi, il piccolo protagonista, anche per Mozhda vale lo stesso.
Nicolò, è uno dei suoi insegnanti, non la perde di vista un secondo. La guarda con orgoglio. Si scambiano occhiate d’intesa quando commette un piccolo errore di inglese e si corregge subito. «È arrivata qui che non sapeva alcuna parola di inglese. In quattro mesi ha imparato più di quanto non abbia imparato io in quattro anni di Liceo», dice Nicolò.
Mazì è un luogo ideale. E ti accorgi subito come il passaggio dal libro di Nicolò Govoni «Se fosse tuo figlio», alla realtà quotidiana della scuola il passo sia inesistente. Racconto e realtà si intrecciano.

Nicolò è al terzo libro. Racconta della sua vita fatta di alti e bassi, di Samos, dei bambini, della scuola, delle ong conniventi con un sistema inumano, dell’hotspot: il buco nero d’Europa. Di un ragazzo ribelle per le etichette che gli sono state affibbiate e alla fine ti convincono di essere realmente come esse: se stesso. Sono 7 anni che Nicolò è fuori casa, fuori Italia, fuori. Libero da lacci e ideologie preconfezionate e sogni con la scadenza. Dopo una esperienza di volonturismo, così lo chiama, in India e un primo impatto con Samos, cresce in lui il convincimento che per fare le cose bene deve farle a modo suo. Fonda con due amiche «Still I rise» e da quel momento sembra che i pezzi del puzzle della sua vita inizino a far vedere il disegno. Mazì è il nome della scuola, vuol dire insieme. I Dreamers sono i bambini che la affollano. Tanti successi, tante difficoltà, tanto, tantissimo da fare e da dare. La scuola è l’unico luogo protetto a Samos per i minori. A Mazì non devono preoccuparsi che qualcuno rubi loro i vestiti o i pochi oggetti che possiedono. Possono fare colazione e pranzo senza ore di fila. Possono leggere, studiare, possono fare i bambini. Non devono scacciare i ratti dalla tenda o urlare dietro ad un serpente. Le uniche urla sono di gioia.

Vi spoilero il finale: Mozhda ce la farà, andrà a vivere in Germania e diventerà medico.

Chiesa cattolica svizzera

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