La vicenda di Noa Pothoven. La violenza che spegne la gioia di vivere

Nei giorni in cui le donne svizzere si preparano a scendere nelle strade e nelle piazze per chiedere opportunità e diritti uguali e condivisi con gli uomini, in Olanda, nel chiuso di una stanza d’ospedale Noa Pothoven si lasciava morire di fame e di sete. Noa aveva 17 anni. Per la legge olandese abbastanza per decidere se avvalersi della possibilità di uscire dalla vita, di lasciarsela alle spalle come un dono non gradito, una promessa non mantenuta, un pacco da rispedire al mittente. Nel suo caso,però, le autorità a cui aveva ricorso l’anno prima per chiedere di porre fine ad una vita che le riusciva insopportabile, hanno deciso di rinviare la decisione fino al compimento del suo 21mo anno di età.

E lei ha deciso di lasciarsi morire, che no: non poteva aspettare. Iniziando a rifiutare al suo corpo anche il minimo indispensabile per sopravvivere.Una foto presa da Instagram la ritrae mentre accosta il suo viso a quello di una pecora, stringendola in un abbraccio. Sopra entrambi un cielo azzurro a tratti coperto da nuvole bianche. E’ così che me la immagino, mentre scrivo queste righe, senza conoscerla, senza nulla sapere di lei se non che aveva lunghi capelli biondi, occhi azzurri e che aveva incontrato la violenza una prima volta ad undici anni, ad una festa, e una seconda volta a 14, quando due uomini per strada l’avevano aggredita e nuovamente approfittato del suo acerbo corpo di ragazzina. Nell’età in cui si osano i primi passi fuori dal mondo domestico, in cui ci si avvicina al vasto mondo che si intravede oltre la siepe del giardino, in cui si comincia a immaginarsi in un futuro, Noa aveva già incontrato il male. Non una: ma ben due volte. Le conseguenze? I medici le diagnosticano disturbi posttraumatici, un grave stato di stress, una profonda depressione e l’anoressia. Di fatto, in un’età in cui la vita dovrebbe sbocciare, quella di Noa è stata recisa. Come un fiore colto e gettato. Vi sono eventi, fatti, gesti che risultano «troppo»: impossibili da dimenticare, curare, guarire.

A 16 anni, forse in un sussulto di speranza, affidando la sua esperienza di vita, alle capacità taumaturgiche della parola, ha raccontato il suo vissuto in un libro che in breve è diventato un bestseller pluri-preminato. Il titolo: «Vivere o imparare». Un aut aut che contrappone due verbi che dovrebbero, secondo la logica, essere consequenziali e non contrapposti, in modo da rappresentare una scelta. Oggi possiamo dire che la scelta di Noa è andata all’imparare. La breve parabola di vita di Noa impone il rispetto, innanzitutto, della sua persona. Impossibile accostarla ad altri casi. Ad altri nomi. La sua vicenda non assomiglia né all’uno né all’altro episodio che la cronaca porta, a intervalli regolari, nelle nostre case. Appartiene a lei sola e sta a ricordarci che ogni essere umano è irripetibile, anche nel suo dolore. E nulla sappiamo, ad oggi, di quanto questa sua sofferenza sia stata accompagnata, abbracciata, sostenuta da un contesto familiare comunitario che le proponesse ancora di credere nella bellezza della vita. Tutto questo lo ignoriamo, ma sappiamo che in queste giornate dove le donne sono sotto i riflettori, la sua storia ci rimanda anche a quel femminile fragile e innocente, spezzato dalle violenze.

Corinne Zaugg

Chiesa cattolica svizzera

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