Malala, una giovane coraggiosa

Malala Yousafzai è da tutti conosciuta per aver vinto il premio nobel per la pace nel 2014. È stata vittima di un attentato dei talebani e a 15 anni (dieci anni fa) ha dovuto lasciare la sua patria, il Pakistan, con la sua famiglia. È stata curata e accolta nel Regno Unito dove oggi studia filosofia, scienze politiche ed economia presso la Oxford University.
È fresco di pubblicazione (gennaio 2019) il suo ultimo libro: «Siamo tutti profughi», edito dalle Garzanti. Nella prima parte ripercorre la sua storia, nella seconda dà voce ad altre giovani profughe che ha conosciuto. Leggiamo nel prologo: «Ho scritto questo libro perché ho come l’impressione che troppa gente non capisca che i rifugiati sono persone normali. L’unica cosa che li rende diversi è che sono rimasti coinvolti in un conflitto che li ha costretti ad abbandonare le loro case… perché troppo spesso, la loro, è una scelta tra vivere e morire. E, come ha fatto la mia famiglia dieci anni fa, hanno scelto di vivere».
Nel 2003 suo padre aveva aperto la sua prima scuola superiore nella valle dello Swat, dove i ragazzi e le ragazze frequentavano le lezioni insieme. Nel 2004 però, le classi miste non furono più consentite. Le ragazze non avevano diritto all’istruzione secondo l’islam, interpretato in tal modo dai talebani che, da poco, avevano preso possesso del paese.
Verso la fine del 2008, i talebani emanarono un nuovo decreto; tutte le scuole femminili avrebbero dovuto chiudere entro il 15 gennaio 2009, in caso contrario sarebbero diventate potenziali obbiettivi di un attacco. Il 4 maggio tutti gli abitanti dello Swat dovettero abbandonare la valle su ordine delle autorità governative. Dopo aver fatto spola tra zii e parenti, un giorno dissero che potevano tornare a casa ma la situazione era solo apparentemente migliorata; i talebani ora agivano nella clandestinità. Malala riprende la scuola e la sua campagna in favore dell’istruzione femminile. Il 9 ottobre del 2012 rimane vittima di un attentato: «Ricordo solamente che stavo preparando gli esami con le mie amiche, sull’autobus della scuola e che quando riaprii gli occhi mi trovavo in un ospedale… Eppure, non mi avevano spezzata». Ricomincia una nuova vita a Birmingham, insieme alla sua famiglia. Malala conosce la fatica di ambientarsi in una nuova scuola e in un nuovo mondo. Ha nostalgia di casa e della sua patria. A tenerle su il morale contribuirono le migliaia di lettere da donne e ragazze che la ringraziavano per aver difeso i loro diritti. Scrive nel libro: «Penso a Muzoon, Maria e Marie Claire. Penso a Najla e Zaynab. Sono solo alcune donne e ragazze straordinarie che ho conosciuto e mi hanno indotto a scavare più a fondo nella mia storia di profuga per poter comprendere e condividere le loro».
Sono tanti i ricordi e le cose a cui un rifugiato ha dovuto dire addio e che ha perduto… Alcune di loro, nel momento della prova, pregano Dio, qualunque sia la loro religione. Così scrive Analisa, di religione avventista: «Qualunque cosa accada, anche dopo tutto quello che ho passato e ancora passerò, so che non solo sola perché Dio è sempre con me». La mamma di Marie Clarie, invece, prega Dio di prendere la sua vita fintanto che i suoi figli siano al sicuro e Dio la prende in parola.

Siamo tutti profughi; anche la Sacra Famiglia ha dovuto fuggire dalla crudeltà del re Erode per rifugiarsi in Egitto. Così scriveva papa Francesco: «Il cuore materno di Maria e il cuore premuroso di Giuseppe hanno conservato la fede che Dio mai abbandona. Per la loro intercessione sia sempre salda nel cuore del migrante e del rifugiato questa stessa certezza». Questo libro ci fa capire che la nostra patria, come afferma San Paolo, non è qui (siamo di passaggio) ma nei cieli. «La nostra patria è nei cieli. Di là aspettiamo il salvatore nostro Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso». (Fil 3,20). E ci fa apprezzare ancora di più tutto quello che abbiamo: il dono della libertà che molti, purtroppo, ancora oggi, non hanno!

Chiesa cattolica svizzera

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