Abbracciare le proprie fragilità

Facciamo finta di essere di fronte a un fuoco, facciamo finta di avere una felpa calda addosso, dei biscotti buoni buoni affianco e il mare davanti a noi, o una montagna innevata, o un bel tramonto, come preferite. Facciamo finta che i drink, la cioccolata calda, o il vino o la confidenza ci abbiano portato a raccontarci cose che non abbiamo mai detto prima ad anima viva in vita nostra.
Quelli che seguiranno sono discorsi per gente un po’ sbronza (di vita, s’intende), discorsi che di mattina non si farebbero mai, ammissioni che domani potrei negare di aver fatto, sono frasi senza senso, ma sono tutte collegate tra loro.
Inizio io, vi va? Così mi faccio perdonare del fatto che negli ultimi mesi sono stata in silenzio, ma spesso per raccogliere storie e vivere momenti che vale la pena siano conosciuti dal mondo; per questo ci vuole tempo, e ci vuole immaginazione: sì, perché per quanto sia difficile da accettare, le cose a noi destinate ci troveranno, e sarà bello essere protagonisti, nonostante la paura del nuovo, nonostante ci troveremmo ad avere a che fare con palpiti di cuore, mai immaginati prima.
In questo senso non posso non pensare agli astronauti quando si avvicinano la luna, o almeno alle loro sensazioni (devono sentirsi confusi, euforici e un po’ soli), nella consapevolezza che pochi altri uomini li hanno preceduti su quel satellite. Sanno di essere un’eccezione perché la norma vuole che i corpi come i loro restino sulla terra e sulla terra camminino e vivano. Ma penso che se i corpi degli astronauti sono arrivati sulla luna è perché molte persone prima di loro li hanno immaginati là e hanno fatto il possibile per mandarli, smussando lentamente gli angoli di un sistema; perfino i loro predecessori hanno sognato più in grande, nonostante possa apparire folle.
Poi quando sono arrivati lassù, hanno messo una bandierina, e non sono sicura fosse solo perché volevano segnare una conquista: quello era il punto più lontano nell’universo raggiunto dall’uomo. Ed è una conquista che almeno metaforicamente ognuno di noi può fare, accogliendo, abbracciando la specificità di un pensiero o di una forma diversa; nella forza di cambiare idea, che significa continuare a esplorare.
Per questo anch’io oggi vorrei mettere una bandierina, qui, ora, ma non per fissare un punto d’arrivo. La mia vuole più che altro essere una linea di partenza, nel raccontarvi, senza distanze dal cuore, il mio aver scoperto isole, sottoforma di persone, che mi hanno dato un motivo per sperare, per ringraziare, per essere ancora più fortemente convinta che essere limpidi e luminosi, è possibile, è necessario.
Il mio primo approdo è stato in ottobre, alla cena di beneficenza della «rountable» di Locarno, una serata che, oltre la goliardia dell’essere «una piccola frida Kahlo a rotelle», mi ha fatto assaggiare un significato nuovo del concetto di «convincere», ovvero: vincere insieme. E’ infatti possibile dare il giusto peso ad un grande aiuto. Un concetto antico dice che l’anima pesi «21 grammi». Ed è questo quello che mi ricorderò sempre di voi, che avete dato valore a tutto ciò che è, a tutto ciò che conta. Non è quindi banale dirvi ancora grazie. Quello che avete fatto per all4all, associazione di cui sono presidente, è molto: mettere a disposizione le proprie risorse e le proprie gambe, non è mai ovvio.
L’essere diventata presidente dell’associazione con cui corro, da novembre, mi dà slancio e ancora più convinzione nel sostenere che non esiste ostacolo che insieme non si possa superare. La curiosità verso il mondo mi porta a spalancare la porta verso ciò che si può migliorare, contro ogni pregiudizio, spalancando la finestra verso i profumi che arrivano dalla strada accanto: l’altro come riflesso di me, e come persona che rinfranca, mi fa avere fiducia nel giorno che verrà.
E in questo, donazioni come quella di «Amici4ti» sono solo benzina per progetti sempre più ambiziosi. Per me essere alla testa di All4all, non è avere potere, ma metterci la faccia, essere nel mio piccolo, una sicurezza: qualcuno che ha le ruote che pensa a chi ha le ruote, per osmosi ci si capisce meglio.
L’idea di base per me è quella di custodire i momenti insieme a chi si fida di me. Il che significa tenerci davvero, aver cura sul serio. Certi amori, per esempio, non li puoi dimenticare, anche se dovresti e allora ti tocca proteggere gli attimi che ti sono rimasti incastrati dentro. È come un promemoria. Custodire vuol dire questo, per me: ricordarsi perché. E dici niente.

Il secondo pitstop, è stato un abbraccio a me stessa, figlia di una consapevolezza: il fatto di soffrire di una malattia cronica, vuol dire averci a che vedere «il tempo di una vita». E non mi ero mai accorta di quanto questo concetto fosse forte: nessun giorno immune da uno stato fisico difficile. Averlo interiorizzato, ha dato a tutti i momenti belli uno stato di beatitudine simile al miracolo. Perché ha messo ancora una volta, davanti a tutto il resto, l’empatia, l’amore. Ho capito quanto l’essere apprezzata e capita, e il mettermi in gioco per me sia fondamentale.
Da questo è nata la voglia di condividere la mia parte più vulnerabile, più privata, attraverso parole e immagini, questo attraverso gli amici di #spam e i servizi fotografici della mia amica Simona Cresta, non per narcisismo o sovrapposizione, ma perché ho capito quanto sia giusto dare valore a chi fa del prendersi a cuore l’altro, e di se stesso, un atto che cambi, in modo positivo ,chi gli sta intorno.
Sì, prendere sul serio la nostra reciproca fragilità e precarietà e sostenerla, rispettarla, attribuirle potere, è un atto di cambiamento vero. Proteggersi a vicenda, mettere in atto e praticare la comunità, una parentela radicale, una socialità interdipendente, una politica della cura, è questo che farà in modo che guardandoci allo specchio possiamo dire di essere di aver condiviso, di aver dato.
Quindi capirete come Simona con le sue foto è riuscita a dare una visione di disabilità diversa (che a più a che fare con una «bis abilità» perché sono dense di inquadrature che dicono che è possibile stare «in piedi», «seduto» o come tu voglia,) a donare bellezza, perché queste foto fanno capire che il pregiudizio che chi ha bisogni speciali debba essere «messo in un angolo», non ha, come pregiudizio, bisogno di esistere. Così la fotografia è fotogramma di memoria: bisogna ricordarsi appunto che l’unicità del corpo femminile parte anche da qui, perché le minoranze, hanno bisogno di essere viste. E farle vedere con tutti gli atout possibili (forza, meraviglia, e stupore) vuol dire fare un regalo bellissimo ad un mondo che è, gioco forza, stereotipato.
#spam ha fatto molto per me, perché dandomi spazio mi ha dato voce. Simo, Pablo, Marco ed Emi, hanno fatto in modo che io potessi, in quanto «non normo tipo» farmi portavoce, ed avere cassa di risonanza nel dire, o meglio ribadire, dire che «noi non siamo malati» ma «la malattia viene a noi» e per quanto possibile la si onora vivendola al meglio possibile.
La mia terza terra nuova, o isola da sogno, deriva proprio da questo, da un sogno. Da un po’ di anni oramai, mi occupo di conferenze sulla diversità ,ma solo quest’anno ho avuto il coraggio di fare del mio parlare, un qualcosa di pubblico, e avere la Sala Comunale di Bellinzona, è stato per me un traguardo, che essendo diviso con tante persone – davvero oltre le mie aspettative – ha reso il tutto indimenticabile.
E’ stato così bello per me dire sempre e ancora, che alla fine siamo tutti diversi, e nello stesso tempo uguali. C’è chi racconta, chi zoppica, chi è iperfelice, chi è depresso, chi piange per una foglia che cade, chi ruba, chi dice sempre la verità, chi va sempre dritto, chi è sempre felice, chi da senza chiedere nulla in cambio, chi vede, chi vive, e chi no, ma poco importa, perché se ci sentiamo una parte del tutto, e se abbiamo vicino persone che ci fanno sentire bene, allora le nostre paure spariscono, i difetti non ci sono più, mutano, e sarà anche un ovvietà, che è l’amore che vince e il rispetto, anche se non significa sempre condividere le stesse idee.


L’insicurezza non è mai una debolezza, ma anzi, si tratta di un grande punto a nostro favore per imparare, infatti ci fa vedere e ci mostra dove si deve operare, riaggiustando; non limita, è una grande insegnante, in combinazione con l’amore, il più grande maestro. Alla fine nulla vale più dell’esempio, nel perseverare nella consapevolezza di non voler fare errori, nel fare sempre meglio. Nel dare un seme.
Questo è è solo un piccolo riassunto di quanto ho vissuto negli ultimi tempi, mancheranno sicuramente tante banderuole nella mia cartina, ma a mia discolpa, posso dire che il vento di quel che ricordo, non è mai uguale a se stesso, e sicuramente domani mi porterà su nuove vie, e non importa quante volte io mi sia fermata sulla strada, e nemmeno quanto cammino io abbia fatto, ma quanto di tutto questo abbia influenzato la persona che io sono ora, e posso dire che è così.
Perché dopotutto, quello che io scrivo, non voglio parli solo di me, ma possa essere in parte condiviso da tutte le persone che mi leggono. Perché ogni storia ha un destinatario, e ogni evento porta con se una verità, universale.

E credo di aver capito che spesso ciò che segna, è ciò che prescinde da noi stessi. Come quando al catechismo ti spiegano i concetti davvero importanti, le parabole, i dieci comandamenti. Non so voi ma io nonostante le spiegazioni del «Don» da bimba faticavo a dargli una dimensione reale.. Tipo il concetto di «Ama il prossimo tuo, come ste stesso». Wow, bello, anche il compagnetto poco carino che mi tira le trecce, la vicina di casa che stressa, il resto del mondo che è intollerante? Si esattamente si.
Ed è questo che ho potuto mettere in pratica a dicembre, perché quest’anno la lettera a Gesù bambino, l’ho scritta dalla clinica Hildebrand, e per quanto le mie gambe lo sappiano che il mio mese e mezzo è stato proficuo, le mie braccia altrettanto, e le amicizie nuove nate lì certo non sbiadiranno, non è stato facile. Ho dato sangue e sudore.
Ma è stato davvero utile, li ho capito che forse davvero quelli che hanno più bisogno di essere sostenuti e a cui regalare bellezza e visioni, sono i dottori, i terapisti, gli infermieri e i parenti che quotidianamente dedicano le loro migliori energie ad altri esseri umani che cercano di recuperare il loro rapporto con la vita e che in quella dedizione costante si consumano: ogni essere ha bisogno di luce e magia e amore.
Lì ho toccato con mano l’undicesimo comandamento, quello che contiene e spiega i dieci di Mosè. E ho imparato a non fare più casino, perché vivendo «ama il prossimo tuo come te stesso», ho avuto l’illuminazione di dove sbagliavo.
Perché mi rendo conto, che se noi ci amiamo male, e diamo lo stesso trattamento agli altri, le cose non possono certo andare per il verso giusto: quanti di noi, io per prima, amando noi stessi abbiamo la stessa incostanza di un fiore spostato dal vento, o della margherita a cui strappiamo i petali con disattenzione e poi la dimentichiamo nel prato. Quanti di noi amano se stessi con entusiasmo all’inizio ma poi ci annoiamo, ci arrabbiamo, non miglioriamo, e ci si butta via per niente?
Il comandamento di Gesù invece, quello strano Nazzareno ribelle, che credeva nell’Amore vero, ci dice, che dovremmo fare diversamente.
E io in quei giorni in clinica ho cercato di prenderlo in parola, e ne ho fatto l’ambulatorio della mia anima. Partendo da come vorrei amarmi, ovvero con tenerezza e perdono. Riconciliandomi con ogni parte di me, dicendo «va bene» ai miei limiti ma cercando di dargli il coraggio di non considerarsi più tali.

Come vorrei essere amata? Con il classicissimo: io ti amo. Detto secco, semplicemente.
E il prossimo? Dando importanza. Ovvero, ci sei? Ci sono. Considerando l’errore come una possibilità, lasciandosi sbagliare. Si gioca, si fa sul serio, si litiga, si chiede scusa, si torna a giocare e a fare sul serio. Amarsi così nel comunque sei, nel comunque siamo. E nel comunque, io ti amo.
In sintesi devo riconoscenza a questo tacere: come vedete, è stato denso di cose, di definizioni nuove per il dizionario del mio cuore, che è come sempre al centro di ogni mia azione.
Discorsi da sbronza ho detto all’inizio? Ma era un gioco, era un trucco, che cela un vizio: quello di non pensare troppo alle parole, e cercare confidenza con chiunque, persino un raggio di sole e il primo passo di chi si sente cacciatrice di stelle.

Chiesa cattolica svizzera

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