Un Santo per tutti: Oscar Arnulfo Romero

Quando una persona mostra nella quotidianità della sua vita, sia pure con gli inevitabili limiti della sua natura mortale, di prendere davvero sul serio il Vangelo di Gesù Cristo, si può arrivare a dire: «È un santo» oppure «È una santa». Non servono segni straordinari: basta l’evidenza della generosità solidale per gli altri, vicini o lontani che siano, giorno per giorno, mese dopo mese, anno dopo anno. Di questi «santi» e di queste «sante» anche il nostro tempo è assai più ricco di quanto spesso si creda…D’altra parte non è detto che coloro che sono stati elevati all’onore degli altari ne fossero sempre evangelicamente degni…

Nel caso di Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, assassinato durante la celebrazione di una Messa il 24 marzo 1980, il «sospetto» diffuso della sua santità si è sviluppato in particolare durante il suo ministero episcopale vissuto in un crescendo di fedeltà evangelica giunta sino all’estremo sacrificio di sé proprio durante il momento in cui si fa memoria della dedizione massima del Nazareno a favore dei suoi contemporanei e, conseguentemente, di tutta l’umanità. Un bibliotecario ecclesiastico come lui probabilmente non ha lasciato trasparire per molti anni questa sua consapevolezza d’amore, che si è poi manifestata nell’essere un pastore esigente e coraggioso al servizio della sua gente a cominciare dai più poveri e martoriati, ad immagine e somiglianza del suo Signore (cfr. Luca 4,16ss).

Molti si sono opposti a lui in vita, sino ai mandanti e agli esecutori della sua morte. Tanti altri hanno fatto resistenza, nelle forme più varie, perché quest’uomo per nulla rivoluzionario, nel senso socio-politico tradizionale del termine, ma radicalmente cristiano, finisse nel dimenticatoio e non arrivasse mai all’onore degli altari.

La tenace determinazione di alcuni, in America latina e in Italia, e la presenza di Jorge Mario Bergoglio come vescovo di Roma hanno condotto alla giornata della beatificazione prima e della santificazione dopo. Il Papa che ha dato rilievo particolare a figure evangelicamente chiare come don Puglisi, don Mazzolari, don Milani e don Tonino Bello, nel giorno della santificazione del pontefice con il quale Romero aveva avuto rapporti positivi, ha deciso di santificare Romero stesso. Leggere, per es., tante omelie di mons. Romero aiuta a far crescere l’ammirazione nei suoi confronti e a tentare di far progredire ogni azione teologica e religiosa che realizzi la liberazione da sofferenze ed oppressioni con la massima concretezza formativa e pratica possibile.

Il 26 aprile 1980 Gustavo Gutierrez – uno dei padri della «teologia della liberazione», allora docente della Facoltà di Teologia dell’Università cattolica di Lima, variamente perseguitato da autorità ecclesiastiche locali e non – scrisse sul quotidiano italiano «Il Giorno» – si occupò di tale pubblicazione il noto vaticanista Giancarlo Zizola – quanto segue:

«Monsignor Romero aveva chiara coscienza che doveva riconoscere le stimmate sofferenti del Cristo nei volti dei poveri del suo popolo. La sua opzione per loro è l’angolo concreto e storico che ci permette di comprendere il suo impegno e il suo messaggio, il suo appello alla pace basata sulla giustizia, la sua lettura del Vangelo. Monsignor Romero predicava ogni domenica, e le sue ampie omelie (da una a due ore di durata) erano ascoltate con attenzione in tutto il Paese, e anche molto oltre. Ogni omelia aveva tre parti: un commento ai testi della Messa del giorno, un riflessione cristiana che collocava questi testi nel solco di un tema determinato, e infine applicazioni pastorali, lettura di lettere, analisi della situazione vissuta dal popolo, denuncia delle violazioni dei diritti dei più poveri.

Il 17 febbraio di quest’anno (ndr: 1980) inviò una lettera al presidente Carter denunciando la situazione esistente a El Salvador e l’appoggio degli Stati Uniti, esigendo che il governo nordamericano, chiamato a fare questi interventi, si astenesse dall’intervenire. Monsignor Romero ricevette molte volte minacce di morte. L’assassinio dei sacerdoti salvadoregni era già un avviso. Il 24 febbraio, un mese prima della sua propria morte, e dopo aver difeso con parzialità evangelica i diritti dei poveri, diceva: «Spero che questo appello della Chiesa non indurisca ancora di più il cuore degli oligarchi, ma che al contrario li muova a conversione. Condividano ciò che sono e ciò che hanno. Non mettano a tacere, mediante la violenza, noi che facciamo presente questa esigenza, non continuino ad uccidere coloro che stanno cercando di conseguire una distribuzione più giusta del potere e della ricchezza del nostro Paese».

A questa chiara denuncia, che non nascondeva coloro ai quali si indirizzava, aggiungeva con serenità e forza: «Parlo in prima persona, perché questa settimana ho ricevuto un avviso che sono nella lista di coloro che saranno eliminati la settimana prossima. Però sono tranquillamente convinto che la voce della giustizia non la si potrà uccidere mai».

La voce della giustizia no, perché essa continua a risuonare a El Salvador. Però lui personalmente sì, dopo quattro settimane dall’aver pronunciato queste parole. Si può dire per questo che monsignor Romero arrischiava la sua vita ogni domenica; e di ciò egli era pienamente cosciente. Quando gli dissero che doveva proteggersi, rispondeva che non voleva avere la protezione che il suo popolo non aveva. Già nel sermone del primo novembre aveva affermato con tutta chiarezza e piena umiltà: «Chiedo le vostre preghiere per essere fedele alla promessa di non abbandonare il mio popolo, ma di correre con lui tutti i rischi che il mio ministero esige».

Di questo si trattava in effetti per monsignor Romero, di compiere il suo servizio come vescovo. L’esercizio del suo ministero assunto con coraggio e santità, provocò la pallottola assassina – una sola – nel momento in cui iniziava l’offertorio della sua ultima e incompiuta eucaristia, lunedì 24 marzo. Morì per dar testimonianza del Dio vivo nella solidarietà con la vita e con gli sforzi di organizzazione e di liberazione dei poveri e degli oppressi. Monsignor Romero non ignorava che c’erano alcuni che non comprendevano le esigenze del Dio della Bibbia. Il 9 marzo diceva: «Questa rivelazione del Dio vivo, cari fratelli, ha molta attualità oggi, mentre stiamo cercando di presentare una religione che molti criticano come se si allontanasse dalla loro spiritualità». Il vescovo martire, uomo di preghiera, non la intendeva così. Considerava invece che la fede nel Dio di Gesù implica l’impegno con il povero e con tutto ciò che esigono i suoi diritti più elementari. È per questo che nel suo rifiuto umano e cristiano della violenza tutto non era messo sullo stesso piano per lui. In numerose occasioni egli affermò che la ragione principale di ciò che avveniva a El Salvador stava nella secolare situazione di miseria e disperazione delle grandi maggioranze, risultato di un sistema oppressivo fatto a beneficio di pochi. Si tratta della violenza e ingiustizia istituzionalizzate delle quali parlano Medellin e Puebla.

A partire da lì non è possibile accettarlo tutto e monsignor Romero non lo fece, però importa tenerlo in considerazione per comprendere l’esigenza e l’incarnazione dell’amore e della pace che egli predicava…Monsignor Romero è un martire della opzione fatta dalla Chiesa a Medellin e a Puebla. A partire dalla sua morte il significato di questa opzione apparirà più chiaro. Un martire che dà testimonianza del Dio vivo in mezzo alla morte che seminano gli oppressori. Martire del nostro tempo, cristiano scomodo e forte, di vita chiara, umile e serena. La sua morte non è disgraziatamente un fatto isolato e ci permetterà di comprendere molti altri testimoni sparsi in questo continente di dolore e di oppressione, però anche di liberazione e di speranza, che è l’America Latina. Sul sangue dei martiri si costruisce la Chiesa come comunità che annuncia nella Risurrezione la vittoria definitiva. della vita sulla morte.

Sul sangue dei martiri si sta costruendo nel nostro subcontinente una Chiesa in mezzo a un popolo che lotta per la sua liberazione. Monsignor Romero descriveva così il suo lavoro, in una omelia: «Il mio lavoro è consistito nel mantenere la speranza del mio popolo, se c’è un poco di speranza il mio dovere è di alimentarla». La sua vita e il suo martirio nutrono e sollevano la speranza del popolo povero, sfruttato e cristiano dell’America Latina e danno vita nuova e impongono nuove esigenze alla Chiesa presente laggiù».

Le esigenze di battersi per la giustizia a favore di tutti, perché essere discepoli veri del Dio di Gesù Cristo significa questo, restano sempre vive, in America Latina e, con le differenze del caso, in ogni parte del mondo. Papa Francesco lo dice dall’inizio del pontificato e tante sue scelte sono andate in questa direzione. Chiunque dice di essere cristiano da che parte sta? Cerca di essere da quella di Oscar Arnulfo Romero o da qualche altra?

 

Chiesa cattolica svizzera

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