La vittoria di san Kolbe ad Auschwitz: dare la vita per il fratello

 

È oggi che la chiesa ricorda San Massimiliano Maria Kolbe,  il frate francescano polacco ucciso dalla barbarie nazista il 14 agosto 1941 nel campo di sterminio di Auschwitz. Kolbe nasce nel 1894 a Zdunska-Wola, in Polonia. Entra nell’ordine dei francescani e, mentre l’Europa si avvia a un secondo conflitto mondiale, svolge un intenso apostolato missionario in Europa e in Asia. Ammalato di tubercolosi, Kolbe dà vita al «Cavaliere dell’Immacolata», periodico che raggiunge in una decina d’anni una tiratura di milioni di copie. Nel 1941 è deportato ad Auschwitz. Qui è destinato ai lavori più umilianti, come il trasporto dei cadaveri al crematorio. Nel campo di sterminio Kolbe offre la sua vita di sacerdote in cambio di quella di un padre di famiglia, suo compagno di prigionia. Muore pronunciando «Ave Maria». Sono le sue ultime parole, è il 14 agosto 1941. Giovanni Paolo II lo ha chiamato «patrono del nostro difficile secolo». La sua figura si pone al crocevia dei problemi emergenti del nostro tempo: la fame, la pace tra i popoli, la riconciliazione, il bisogno di dare senso alla vita e alla morte.

Proprio per questo, le parole con cuo lo ricorderà san Giovanni paolo II, sono di profonda riconsocenza: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici». Le parole di Gesù riportate da Giovanni nel suo Vangelo saranno ripetute dal Papa il 10 ottobre 1982, ricordando la canonizzazione di questo grande Santo della Chiesa.

L’omelia di Wojtyla: «si presentò spontaneamente»

Come racconta Papa Karol Wojtyla alle decine di migliaia di fedeli radunati in piazza san Pietro, alla fine di luglio del 1941, «per ordine del capo del campo si fecero mettere in fila i prigionieri destinati a morire di fame». Dieci detenuti del Blocco 14 dovevano morire perché uno di loro era riuscito a fuggire. Massimiliano Maria Kolbe, che era stato messo insieme agli ebrei perché sacerdote, e addetto ai lavori più umilianti, «si presentò spontaneamente, dichiarandosi pronto ad andare alla morte in sostituzione di uno di loro».

«Questa disponibilità fu accolta – racconta ancora nell’omelia Giovanni Paolo II – e al padre Massimiliano, dopo oltre due settimane di tormenti a causa della fame, fu infine tolta la vita con un’iniezione mortale, il 14 agosto 1941». Tutto questo successe, prosegue il Papa polacco, nel campo di concentramento di Auschwitz, in Polonia, «dove furono messi a morte durante l’ultima guerra circa 4.000.000 di persone, tra cui anche la Serva di Dio Edith Stein».

«Padre Massimiliamo Kolbe, essendo lui stesso un prigioniero del campo di concentramento, ha rivendicato, nel luogo della morte, il diritto alla vita di un uomo innocente, uno dei 4.000.000». Franciszek Gajowniczek, l’uomo salvato da Kolbe, in quei lontani anni Ottanta era presente alla celebrazione, e Giovanni Paolo II lo ricordò. «Padre Kolbe ne ha rivendicato il diritto alla vita, dichiarando la disponibilità di andare alla morte al suo posto, perché era un padre di famiglia e la sua vita era necessaria ai suoi cari».

La vita, un diritto esclusivo del Creatore

Padre Kolbe, spiega Karol Wojtyla, «ha riaffermato così il diritto esclusivo del Creatore alla vita dell’uomo innocente e ha reso testimonianza a Cristo e all’amore». A questo definitivo sacrificio, racconta, Massimiliano si preparò seguendo Cristo sin dai primi anni della sua vita in Polonia. «Sin dagli anni della giovinezza, infatti, lo permeava un grande amore verso Cristo e il desiderio del martirio».

Massimiliano non morì, diede se stesso per il fratello

«Cosa è successo nel Bunker della fame, il giorno 14 agosto 1941? – si domanda Wojtyla. «Massimiliano non morì – scandisce – ma ›diede la vita… per il fratello’». «Egli da sé si offrì alla morte per amore.» «Proprio per questo – conclude Giovanni Paolo II – la morte di Massimiliano Kolbe divenne un segno di vittoria. È stata questa la vittoria riportata su tutto il sistema del disprezzo e dell’odio verso l’uomo e verso ciò che è divino nell’uomo, vittoria simile a quella che ha riportato il nostro Signore Gesù Cristo sul Calvario». Un martire non in odium fidei, quindi, ma un «martire dell’amore», come lo chiamò Papa Paolo VI, che lo beatificò  il 17 ottobre 1971.

(red/vaticannews)

Chiesa cattolica svizzera

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