Il Papa: quante guerre in meno se i potenti servissero!

Se nel corso della storia «tanti re, imperatori, capi di Stato avessero capito» l’insegnamento di Gesù che, lavando i piedi ai suoi discepoli, ha mostrato che «chi comanda deve servire», «invece di comandare, essere crudeli, uccidere gente», «quante guerre non sarebbero state fatte!». Così il Papa nella breve omelia a braccio che ha pronunciato nel corso della messa in Coena Domini del giovedì santo che quest’anno ha voluto celebrare nel carcere romano di Regina Coeli, occasione per ricordare ai detenuti che Gesù «non sa lavarsi le mani» e «rischia» per amore per raggiungere i peccatori e perdonarli.

 

Al suo arrivo all’antica casa circondariale romana di via della Lungara, a Trastevere, attorno alle 16, il Papa si è dapprima soffermato per oltre mezz’ora con i detenuti ammalati in infermeria e ha poi presieduto la messa che marca l’inizio del triduo pasquale al centro della rotonda del carcere.

 

«Gesù dice «Io ho dato un esempio a voi perché voi facciate quello che io ho fatto a voi»: lavare i piedi», ha detto il Papa nell’omelia trasmessa da Radio Vaticana Italia.

 

«I piedi in quel tempo erano lavati dagli schiavi, era un ufficio di schiavo. Non c’era l’asfalto, non c’erano i sampietrini, ma la polvere del cammino e la gente si sporcava i piedi e all’entrata della casa c’erano gli schiavi che lavavano i piedi. Era un ufficio di schiavi. Era un servizio. E Gesù volle fare questo servizio per farci un esempio di come noi dobbiamo servirci gli uni gli altri. Una volta, quando erano in cammino, due dei discepoli che volevano fare carriera avevano chiesto a Gesù di occupare dei posti importanti, uno a destra e l’altro a sinistra e Gesù li ha guardati con amore – sempre guardava con amore – e ha detto «Voi non sapete che cosa chiedete». I capi delle Nazioni, dice Gesù, comandano, si fanno servire… pensiamo quell’epoca dei re, degli imperatori tanto crudeli che si fanno servire dagli schiavi… ma fra voi non deve essere lo stesso. Chi comanda deve servire. Il capo vostro deve essere il vostro servitore. Gesù capovolge l’abitudine storica culturale di quell’epoca anche di oggi: quello che comanda per essere un bravo capo, sia dove sia, deve servire. Io penso tante volte – non a questo tempo perché ognuno è ancora vivo e può cambiare vita – penso alla storia: se tanti re, imperatori, capi di Stato avessero capito questo insegnamento di Gesù e invece di comandare, essere crudeli, uccidere gente avessero fatto questo, quante guerre non sarebbero state fatte: il servizio. Davvero che c’è gente che non facilita questo atteggiamento: gente superba, gente odiosa, gente che forse desidera per noi il male, ma a questi bisogna servirli di più».

 

«E anche c’è gente che soffre, che è scartata dalla società, almeno per un tempo, e Gesù va lì a dirgli «tu sei importante per me». Gesù viene a servirci e il segnale che ci serve oggi qui in Regina Coeli è che ha voluto scegliere dodici di voi, come dodici apostoli, per lavare i piedi. Gesù rischia su ognuno di noi. Sappiate questo: Gesù si chiama Gesù, non si chiama Ponzio Pilato, non sa lavarsi le mani. Soltanto sa rischiare. Guardate questa immagine tanto bella», ha proseguito il Papa indicando l’altare sul quale celebra, opera in bronzo dello scultore Fiorenzo Bacci che ha poi lasciato in dono al carcere: «Gesù inchinato tra le spine rischiando di ferirsi per prendere la pecorella smarrita. Pensate a Gesù, ha rischiato per venire da me, un peccatore, e dirmi che mi ama. Questo è il servizio. Questo è Gesù. Non ci abbandona mai, non si stanca mai di perdonarci. Ci ama tanto: guardate come rischia. E così con questi sentimenti – ha concluso il Papa – andiamo avanti in questa cerimonia che è simbolica: prima di darci il suo corpo e il suo sangue, Gesù rischia per ognuno di noi e rischia nel servizio perché ci ama tanto».

 

Nel corso del rito, il Papa ha lavato i piedi a dodici detenuti. Per sceglierli «abbiamo seguito due criteri, quello territoriale e quello religioso», ha spiegato padre Vittorio Trani, francescano conventuale, che a settembre compirà 40 anni come cappellano di Regina Coeli. «Per loro è una grandissima emozione. Incontrare il Papa è la possibilità di stare a contatto con una figura straordinaria: il responsabile della religione cattolica ma anche un uomo straordinario che non dimentica nessuno».

 

Al momento della benedizione, il Papa si è rivolto ai detenuti invitando ognuno a pensare nel proprio cuore «le persone sulle quali noi vogliamo che venga questa benedizione».

 

«Santo Padre che bel regalo che ci ha fatto!», ha commentato a conclusione della messa la direttrice del carcere, Silvana Sergi. «Ben venuto ancora a Regina Coeli, oggi lei con la sua visita, è inutile dirglielo, ha illuminato veramente questo penitenziario così antico, ha illuminato il tempo e lo spazio della pena. Spesso i carcerati lo vedono buio, pieno di sofferenza, rabbia, rancore, e con la sua presenza lei ha addolcito tutto questo e io sono sicuro che le nostre anime, sono tutte nella sua preghiera. In queste mura quando inizia la pena finisce la colpa, e pian piano ci si avvicina forse alla grazia. La grazia credo sia quello di riuscire a sperare, sperare in un progetto di vita migliore. La sua visita aiuta soprattutto noi operatori, che con il nostro lavoro dobbiamo infondere speranza, indicare un percorso di vita diverso da quello che ci ha condotto qui: se non fossimo capaci di donare speranza il nostro lavoro sarebbe insostenibile. Ci affidiamo a lei, alle sue preghiere, perché la nostra comunità continui con spirito cristiano sulla via della speranza e ci conceda di gioire del nostro servizio».

 

Dopo la direttrice ha preso la parola un detenuto, Alessandro, che a nome di tutti i carcerati ha rivolto un breve saluto al Papa: «Questo incontro è per noi un incontro di famiglia, e per questo ti diamo del tu come fanno i figli con il loro padre. Sentiamo che ci porti nel cuore non per dirci che siamo stati bravi ma per ricordarci che la vita è un dono prezioso e Dio ci ha perdonato e ci invita a spenderla bene. Oggi vogliamo far risuonare due grazie. Il primo grazie è per questa visita. L’aspettavamo da tanto tempo. Un grazie che ti rivolgiamo a più lingue perché la maggior parte di detenuti sono stranieri. Il secondo grazie è a nome di tutti i detenuti del mondo per la tua attenzione rivolta a chi vive l’esperienza carceraria. Non possiamo dimenticare il Giubileo della misericordia, le visite che hai fatto alle carceri, i riferimenti continui ai detenuti. A nome di tutti grazie, grazie, grazie. Vogliamo raccogliere l’esortazione che hai rivolto ieri ai fedeli in piazza San Pietro a lavare gli occhi dell’anima. Dio sa quanto in ambienti come questi ci sia bisogno di uno sguardo nuovo».

 

Il Papa ha voluto a quel punto riprendere il microfono, con un fuori programma, per un’ultima chiosa a partire dai due saluti della direttrice del carcere e del detenuto. «Uno sguardo nuovo, rinnovare lo sguardo», innanzitutto. «Questo fa bene, perché alla mia età per esempio vengono le cataratte e non si vede bene la realtà. L’anno prossimo – ha confidato Jorge Mario Bergoglio – devo fare l’intervento. Ma così succede con l’anima: il lavoro della vita, la stanchezza, gli sbagli, le delusioni oscurano lo sguardo dell’anima. E per questo quello che hai detto è vero: bisogna approfittare delle opportunità per rinnovare lo sguardo. Come ho detto ieri in piazza San Pietro, in tanti paesini quando si sentono le campane della risurrezione di Gesù le mamme e le nonne portano i bambini a lavarsi gli occhi perché abbiamo lo sguardo aperto per la presenza del Cristo risorto. Non stancatevi mai di lavare gli occhi, di fare quell’intervento quotidiano di cataratta all’anima».

 

«Tutti voi conoscete la bottiglia di vino a metà: se io guardo la metà vuota, la vita sembra brutta, se guardo la metà piena vedo che c’è ancora da bere. Lo sguardo che apre alla speranza. Non si può concepire una casa circondariale come questa senza speranza», ha proseguito il Papa rivolto alla direttrice del carcere. «Qui gli ospiti sono per imparare o fare crescere il seminare la speranza. Non c’è alcuna pena giusta senza che sia aperta la speranza: una pena che non è aperta alla speranza – ha scandito il Papa – non è cristiane e non è umana. Ci sono le difficoltà nella vita, le cose brutte, la tristezza, uno pensa ai suoi, alla mamma al papà alla moglie al marito ai figli, è brutta quella tristezza… ma non bisogna lasciarsi andare giù. Io sono qui ma per reinserirmi, rinnovato o rinnovata: questa è la speranza. Seminare sempre la speranza, il vostro lavoro è questo: speranza di reinserimento. Sempre ogni pena deve essere aperta alla speranza. Per questo non è né umana né cristiana la pena di morte, ogni pena deve essere aperta al reinserimento, anche per dare l’esperienza vissuta per il bene delle altre persone».

 

Francesco ha concluso ringraziando per chi ha lavorato alla preparazione della visita («So che avete lavorato tanto, avete anche imbiancare le pareti, vi ringrazio, per me è un segnale di benevolenza e accoglienza»), prima di ribadire: «Vi sono vicino, prego per voi, pregate per me e non dimenticatevi l’acqua che dà lo sguardo nuovo, la speranza».

 

Prima di fare rientro in Vaticano, Francesco ha incontrato alcuni detenuti della VIII sezione del carcere.

 

Francesco è il quarto Papa che visita il carcere di via della Lungara dopo Giovanni XXIII nel 1958, Paolo VI nel 1964, Giovanni Paolo II nel 2000. Negli anni passati, il papa ha celebrato la messa in Coena Domini al carcere minorile di Casal del Marmo (2013), alla fondazione Don Gnocchi (2014), al carcere di Rebibbia (2015), al C.A.R.A. di Castel Novo di Porto (2016) e, l’anno scorso, al carcere di Palliano.

 

La visita del Papa, per motivi di privacy, non è stata video trasmessa. «È una visita privata, punto», aveva spiegato padre Trani. «Solo i detenuti e chi si occupa dei detenuti. Nessun monsignore, nessun ministro»

Iacopo Scaramuzzi – VaticanInsider

Chiesa cattolica svizzera

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