Madeleine Delbrêl, la missionaria laica delle periferie

Il cardinale Carlo Maria Martini l’ha definita «una delle più grandi mistiche del XX secolo». Padre Antonio Maria Sicari l’aveva già inserita nel suo sesto libro dei ritratti dei Santi (Jaca Book, 2000). Alla Giornata Mondiale della Gioventù di Roma, il cardinale Etchegaray l’accostava a santi come Francesco d’Assisi, Teresa de Lisieux e Teresa d’Avila, nel 1996 era stata proclamata Serva di Dio e Papa Francesco ne ha riconosciuto le virtù eroiche: per Madeleine Delbrêl, ora venerabile, la strada verso gli altari appare in discesa.

Assistente sociale, poetessa e mistica: una figura di donna del Novecento impegnata nel sociale che ha lasciato un segno nella cultura francese ed europea (molto conosciuta da noi nei gruppi giovanili degli anni ’70-80, forse meno oggi). Negli Stati Uniti è vista come «la Dorothy Day di Francia» e a lei si sono ispirati diversi istituti religiosi di vita attiva.

 

«Una donna che sapeva parlare di Dio in modo intenso», dirà di lei il vescovo Claude Dagens, «nel cuore della vita della Chiesa francese» aggiungerà lo storico Andrea Riccardi. «Una mistica tra poesia e impegno sociale» titola la biografia (tradotta da Edb, 2014) curata dai padri Bernard Pitaud e Gilles François, che è anche il postulatore nonchè ideatore del sito web madeleine-delbrel.net . Una di quelle che «sanno anticipare le svolte e precorrere i tempi», ha scritto Enzo Bianchi.

 

Nata nel 1904 a Mussidan nella Francia sudoccidentale, in una famiglia borghese (il padre ferroviere) non praticante, a 17 anni, trasferita a Parigi, Madeleine affida ad un tema tutto il suo pessimismo di adolescente: «Il mondo è un assurdo, la vita è un non senso». «Dio è morto. Ma, se ciò è vero, bisogna avere la lucidità di non vivere più come se Dio esistesse ancora». Non risparmia nessuno: i rivoluzionari «vogliono un mondo nuovo che poi dovranno abbandonare»; gli scienziati «sperano di debellare la morte che in realtà sta benissimo»; i pacifisti «simpatici, ma deboli nel calcolo» (se fossero riusciti ad impedire la Grande Guerra tutti i morti sarebbero comunque deceduti entro il 1998); la gente comune manca di modestia; gli innamorati si promettono amore eterno, ma poi sono sempre più infedeli… Salva solo artisti e artigiani che fanno cose che durano nel tempo come quadri, poesie, sedie. E conclude: «Si può dire a un morente, senza mancare di tatto, «buongiorno» o «buonasera»? Allora gli si dice: «arrivederci» o «addio», finché non si sarà imparato a dire: «a non vederci più in alcun luogo.», «al nulla assoluto»». Con le amiche più care prevale lo slancio dell’età e il patto di «restare sempre giovani, qualunque cosa accada».

 

Solo un anno dopo l’incontro con Jean Maydieu, coetaneo studente di ingegneria politicamente impegnato, le fa intravvedere un futuro possibile: sembra una coppia ideale, ma lui entrerà nel noviziato domenicano e per Madeleine si spalanca il baratro anche per la coincidenza della sopraggiunta cecità del padre con conseguente perdita del lavoro. «In quel momento avrei dato tutto l’universo, pur di sapere che cosa ci facevo dentro!», scrisse.

 

Nel suo animo riflessivo affiorano le domande (su tutte: «Dio potrebbe forse esistere?») unite al ricordo di una citazione da santa Teresa d’Avila ascoltata con Jean: pensare a Dio in silenzio per almeno 5 minuti al giorno. Di qui la conclusione coraggiosa: «Decisi di pregare!», non perché credente, bensì per l’ipotesi che Dio avrebbe potuto esistere. Il risultato è impetuoso e totalizzante: in ginocchio per ore è immersa nella luce o, come dirà più tardi, vive un’esperienza di «abbagliamento». Parafrasando sant’Agostino: «Tu vivevi e io non ne sapevo niente. Avevi fatto il mio cuore a tua misura, la mia vita per durare quanto Te e, poiché non eri presente, il mondo intero mi appariva piccolo e stupido e il destino degli uomini insulso e cattivo».

 

Con l’entusiasmo dei 20 anni sceglierebbe il Carmelo se non fosse per la grave situazione familiare che la tiene legata ai suoi. Un’altra decisione coraggiosa: se il Carmelo non è possibile, sarà il mondo a diventare il suo monastero. «Mio Dio, se tu sei dappertutto, come mai io sono così spesso altrove?». Santa Teresa, san Giovanni della Croce e Charles de Foucauld sono le sue guide spirituali, mentre padre Jacques Lorenzo, il «Buon Samaritano della Parola», le propone di entrare negli scout dov’è cappellano. Esuberante e vulcanica («l’eternità in ogni istante della giornata») scrive poesie, anima incontri di squadriglia, canta e prega all’insegna di una sola parola d’ordine: «gioia» (e un suo scritto sarà «La gioia di credere»).

 

Non è ancora abbastanza: venuta a conoscenza dell’opera di san Vincenzo de’ Paoli, insieme ad una ventina di amiche decide di formare il gruppo «Charité». Anticipando gli istituti secolari, una vita in comune da laiche, vergini nel mondo, una vita di «gente ordinaria», di missionarie «senza battello». «Il mio sogno è che il nostro gruppo sia nella Chiesa come il filo di un vestito. Il filo tiene assieme i pezzi e nessuno lo vede, se non il sarto che ce l’ha messo. Se il filo si vede, allora il vestito è riuscito male». Sogna di andare tra i poveri della banlieue di Parigi: già infermiera, nel 1937 conseguirà anche il diploma di assistente sociale.

 

Delle compagne iniziali la seguiranno solo in due, Suzanne infermiera ed Hélène maestra d’asilo, ma il 15 ottobre 1933 – non è casuale la festa di santa Teresa – a Ivry-sur-Seine, cittadina di operai nei pressi della capitale, al numero 11 di Rue de Raspail apre il «Centro di azione sociale». Il contesto è ateo e comunista, salvo uno sparuto gruppo di cattolici benestanti, nella comunità però vige una massima: «Dio non ha mai detto: Amerai il prossimo tuo come te stesso, eccetto i comunisti». L’accoglienza è totale e ricambiata.

 

Nel 1938 sulla rivista Etudes Carmélitaines pubblicherà un testo programmatico dal titolo «Noi, gente di strada»: «La nostra solitudine non è essere soli… La nostra solitudine è incontrare Dio dovunque e Dio chiede: «Seguimi in strada!»», con un’espressione di oggi, una missionaria delle periferie. Quotidianamente affida i suoi pensieri alla carta a metà tra poesia e preghiera: versi immediati, vibranti di entusiasmo e voglia di vivere nel quotidiano per il Signore (tra i titoli anche la «Spiritualità della bicicletta» e nel 1926 vincerà il premio letterario Sully Proudhomme). È pronta a «danzare» ogni giorno e, «se qualcuno ti urta, rispondere con un sorriso perché anche questo è danza».

 

«Ogni piccola azione è un avvenimento immenso in cui ci è dato il paradiso e in cui possiamo dare il paradiso. Parlare o tacere, rammendare o fare una conferenza, curare un malato o battere a macchina. Tutto questo non è che la scorza di una realtà splendida: l’incontro dell’anima con Dio, incontro ogni minuto rinnovato, ogni minuto che diventa, nella grazia, sempre più bello per il proprio Dio. Suonano? Presto, andiamo ad aprire: è Dio che viene ad amarci. Una informazione?… Eccola: è Dio che viene ad amarci. È l’ora di mettersi a tavola? Andiamoci: è Dio che viene ad amarci. Lasciamolo fare».

 

«Inizia un altro giorno. Gesù vuol viverlo in me. Lui non si è isolato. Ha camminato in mezzo agli uomini. Con me cammina tra gli uomini d’oggi». «Il silenzio non ci manca, perché lo abbiamo. Il giorno in cui ci mancasse, significherebbe che non abbiamo saputo prendercelo. Tutti i rumori che ci circondano fanno molto meno strepito di noi stessi».

 

Secondo Hans Urs von Balthasar la personalità e gli scritti di Delbrêl manifestano qualità contrastanti e paradossali: da un lato profonda serietà e dall’altro humour sorridente; da un lato un infantile «sapersi di Dio» e dall’altro un forte realismo in tema di analisi sociali e psicologiche; da un lato l’appartenenza ecclesiale vissuta fin nel midollo e dall’altro un’assoluta libertà dagli standard ecclesiastici. Se il mondo è il suo monastero, si può pregare anche in metrò. «Il sacrificio di noi stessi: noi non aspettiamo altro che ne scocchi l’ora. Come un ceppo nel fuoco, così noi sappiamo di dover essere consumati».

 

Già impiegata in Comune durante la Guerra, dal Soccorso Nazionale le chiedono di formare personale ausiliario. Al termine del conflitto nel gruppo sono in dieci e la loro casa è un fulcro di attività che coinvolgono tutto il quartiere. Madeleine accoglierà con favore la nascente esperienza dei preti operai che si calano nel mondo del lavoro di fabbrica condividendo la fatica del prossimo, non senza incomprensioni.

 

Nel 1952 un viaggio a Roma: si ferma solo 12 ore e le trascorre a San Pietro immersa in preghiera. L’anno successivo torna in Italia per un’udienza a Castelgandolfo da Papa Pio XII da cui apprende un termine a lei sconosciuto: «apostolato» (che lei declina in «città marxista, terra di missione»). Intanto la sua spiritualità si diffonde in Spagna, Polonia e Costa d’Avorio.

 

Piena di speranza per l’avvento di Giovanni XXIII e l’apertura del Vaticano II (è membro della Commissione preparatoria sulle missioni), il 13 ottobre 1964, mentre a Roma per la prima volta un laico, Patrick Keegan presidente del Movimento mondiale dei Lavoratori cristiani, prendeva la parola nell’assemblea conciliare, Madeleine si accasciava sul suo tavolo di lavoro colpita da ictus cerebrale.

 

Negli scritti che le sorelle hanno ritrovato quasi un testamento: «Leggere il Vangelo, come si mangia il pane». Alcune compagne sono ancora attive a Parigi e Amiens, mentre un’Associazione di «Amici di Madeleine Delbrêl», da Ivry, raccoglie aderenti anche oltre i confini francesi. Nel 2014, per il cinquantenario della morte, un convegno teologico internazionale ne ha ricordato la figura con una ventina di relatori provenienti da diversi Paesi: l’Italia era presente con Pierangelo Sequeri, Luciano Luppi e Edy Natali, autrice di «Madeleine Delbrêl, una Chiesa di frontiera" (Edb, 2010).

Maria Teresa Pontara Pederiva – VaticanInsider

Chiesa cattolica svizzera

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