Il Patriarca Béchara Raï: vi racconto il mio viaggio in Arabia Saudita

«A distruggerci ci hanno pensato le guerre provocate da agenti esterni in Palestina, Iraq e Siria. E adesso, per favore, ci risparmino almeno la sceneggiata degli occidentali che vengono a chiederci cosa ai può fare per salvare i cristiani…». Parla chiaro come sempre, sua Beatitudine Béchara Boutros Raï, patriarca di Antiochia dei Maroniti. Il suo recente viaggio in Arabia Saudita ha rappresentato un evento di rilevanza internazionale, nelle convulse vicende mediorientali . A Riyad, il primate della Chiesa maronita ha incrociato i punti nevralgici delle crisi che agitano il Libano e tutto il Medio Oriente. Il suo approccio realista aiuta a sottrarsi alle tesi preconfezionate e fuorvianti che condizionano sempre di più la rappresentazione degli scenari mediorientali, sia riguardo alla condizione delle comunità cristiane locali, sia che si cerchi di cogliere cosa si muove nei complicati equilibri libanesi. «Hezbollah», riconosce tra l’altro il patriarca, «è uno dei Partiti libanesi. È l’unico Partito che ha le armi, e questo crea un problema. Ma non possiamo chiamarlo «organizzazione terroristica»».

Patriarca Béchara, quali fattori hanno reso rilevante il suo viaggio in Arabia Saudita?

«La mia visita in Arabia Saudita è avvenuta su invito ufficiale da parte delle autorità saudite. Per la prima volta, un Re saudita ha invitato un patriarca, che è stato ricevuto con gli onori riservati a un capo di Stato. Poi, la visita è diventata ancora più rilevante perché è coincisa con le dimissioni del premier libanese Saad Hariri, che le ha annunciate mentre si trovava a Riyad. Ma la data del mio viaggio era stata decisa già due mesi prima».

 

Di cosa ha parlato coi regnanti sauditi?

«Re Salman e poi anche il principe ereditario Mohammed bin Salman volevano parlarmi del Libano. Re Salman conosce bene il Libano, veniva a passare le vacanze estive nelle sue ville libanesi. Ambedue hanno mostrato ammirazione e nostalgia per lo spirito di apertura e di convivenza che si vive in Libano. Hanno elogiato la comunità libanese che si trova in Arabia Saudita, dicendo che coopera allo sviluppo del Paese. E mi hanno manifestato le loro preoccupazioni sul presente e il futuro del Libano».

 

Su cosa hanno lanciato l’allarme?

«Loro temono che il Libano venga assorbito negli schieramenti in conflitto nella regione. E attribuiscono tutto il pericolo all’Iran, che secondo loro trascina il Libano attraverso Hezbollah. Dicevano che il Libano deve rimanere aperto a tutti, per continuare a essere un luogo d’incontro di tutte le identità religiose».

 

Si tratta di una preoccupazione fondata?

«Il Libano è un piccolo Paese con 10mila km quadri, e non può avere alcun interesse ad entrare in guerra contro nessun Paese. Anche nel 1967, quando tutti i Paesi arabi si sono coordinati contro Israele e dicevano di voler «ributtare in mare» lo Stato ebraico, l’unico che non partecipò a quella guerra fu il Libano. Il nostro Paese deve rimanere un terreno di incontro. Deve evitare di entrare nei conflitti armati, per poter giocare sempre il ruolo di elemento di stabilità, di pacificazione».

 

Ma le dimissioni di Hariri, annunciate mentre era a Riyad, non hanno rischiato di destabilizzare tutto?

«Io ho detto ai regnanti sauditi che non potevamo tollerare la permanenza del nostro premier fuori dalla sua patria. C’era il rischio di una crisi istituzionale e politica, tutti facevano appello al suo ritorno. Poi ho incontrato anche Hariri. Lui ha smentito che ci fossero ostacoli al suo ritorno in Libano posti dai sauditi o dalla sua famiglia. E qualche giorno dopo infatti è tornato. Tutto è andato bene. Ringraziamo Dio».

 

La sua visita ha contribuito a sbloccare la situazione?

«Credo che ci sia stato un certo contributo morale. Io avevo chiesto al Re e al principe ereditario se appoggiassero il ritorno di Hariri in Libano. E loro mi avevano risposto di sì, e che bisognava convincere lo stesso Hariri, perché era lui ad avere una certa paura. Nei miei colloqui, chiedevo sempre a tutti di sapere la verità, anche per informare correttamente la Santa Sede su quello che stava succedendo. Quando sono venuto a Roma ho incontrato il cardinale Parolin e l’arcivescovo Gallagher e ho lasciato un resoconto per il Papa, che ho visto di persona qualche giorno dopo».

 

Lei ha detto di aver compreso le ragioni che hanno spinto Hariri alle dimissioni. Quali sono?

«Lui ha detto che il Libano deve mantenere la linea dell’equidistanza, e invece il partito sciita Hezbollah sta coinvolgendo il Libano negli assi di forza conflittuali che si contrappongono in Medio Oriente, dalla parte dell’Iran. Noi, ha detto Hariri, abbiamo 400mila libanesi che lavorano nei Paesi del Golfo, siamo responsabili verso di loro, e non ci possiamo permettere di entrare in contrasto con quei Paesi».

 

A suo giudizio, il presidente Aoun come ha gestito e continua a gestire la crisi?

«Aoun ha agito con saggezza, fin dall’inizio. C’era chi spingeva perché le dimissioni di Hariri fossero subito accolte e si procedesse alla sua sostituzione. Il presidente ha detto di no e che le dimissioni non sarebbero state accolte fino a quando Hariri non fosse tornato in Libano. Si è consultato con tutti i responsabili politici e religiosi del Paese, me compreso, chiedendo di evitare dichiarazioni conflittuali e contribuire insieme alla concordia nazionale».

 

E quando Hariri è tornato?

«Il premier voleva confermare le dimissioni, ma Aoun gli ha chiesto di congelarle per vedere se si può trovare un nuovo accordo per andare avanti, basato sull’equidistanza costruttiva. Le consultazioni in corso in questi giorni servono a verificare questa possibilità. Evidentemente, certe considerazioni di Hariri sono state prese sul serio. Certo, la soluzione non è facile. Su tutto pesa il conflitto tra Arabia Saudita e Iran».

 

Ma il ruolo di Hezbollah è davvero così negativo, come dicono i suoi avversari?

«Hezbollah è uno dei partiti libanesi. Non possiamo chiamarlo «organizzazione terroristica», non perché abbiamo paura, ma semplicemente perché non è vero. Hezbollah è presente nel Parlamento, al governo, nelle amministrazioni locali. Però è l’unico partito che ha le armi, e questo crea un problema. Bisogna risolverlo con saggezza, e la soluzione non coinvolge solo il Libano ma implica legami e rapporti di forza regionali e globali. Nessuno può dire ai libanesi «è un problema vostro, risolvetelo da soli». Dicevano che le armi di Hezbollah servivano a difendersi dagli attacchi di Israele. Adesso Hezbollah ha passato i confini. Si è coinvolto nei conflitti regionali che contrappongono Iran e Arabia Saudita. Io non giudico se gli effetti di questo coinvolgimento siano tutti positivi o negativi. Osservo soltanto che tutto questo espone il Libano a portarne le conseguenze».

 

Si è detto che durante il suo viaggio a Riyad i sauditi hanno espresso il progetto di creare un centro di dialogo interreligioso in una vecchia chiesa restaurata. Cosa c’è di vero?

«Qualcuno ha scritto sui giornali e sui social media questa cosa, che poi si è propagata da sola. Ma tra me e i sauditi non c’è stato nessun accenno sul tema. Ho parlato degli immigrati libanesi in Arabia Saudita e di riconoscere il Libano come Paese del dialogo tra le culture e le civiltà, secondo la proposta avanzata anche dal presidente Aoun all’Onu. In questo contesto, ho accennato anche alla possibilità che i sauditi sostengano in Libano un centro di dialogo interreligioso, come fanno con l’Istituto Kaiicid, con sede a Vienna. Con loro ho parlato anche del grave problema dei profughi siriani in Libano: ormai sono un milione e 700mila, e a loro si aggiungono i 500 mila profughi palestinesi. I profughi sono più della metà della popolazione libanese, la situazione è insostenibile».

 

Ma durante i suoi colloqui con i sauditi avete parlato dei cinque milioni di cristiani che vivono in Arabia Saudita?

«Non abbiamo parlato di questo. Ma loro, i sauditi, hanno presente questa realtà. Hanno avuto parole di elogio per i migranti libanesi, sia cristiani che musulmani. E quando vengono in vacanza in Libano, le loro ville si trovano nei quartieri cristiani.

L’equidistanza «positiva» può rappresentare un criterio da seguire anche per i cristiani della regione? O i cristiani mediorientali hanno sempre bisogno di stringere assi con qualche protettore, magari fuori dal Medio Oriente? Ma noi cristiani viviamo in Medio Oriente da duemila anni, e con l’islam conviviamo da milletrecento anni. Siamo passati in periodi più o meno difficili di quello attuale. Abbiamo potuto creare una vita in comune. A distruggerci ci hanno pensato le guerre provocate da agenti esterni in Palestina, Iraq e Siria. E adesso, per favore, ci risparmino almeno la sceneggiata degli occidentali che vengono a chiederci cosa si può fare per salvare i cristiani… ».

 

I cristiani non soffrono?

«I cristiani soffrono, e soffrono anche gli altri. Quando non c’è acqua, cibo, elettricità, quando ci sono bombardamenti, soffrono tutti e scappano tutti. Il milione e settecentomila profughi siriani in Libano sono quasi tutti musulmani sunniti. Solo Papa Francesco ha detto fin dall’inizio che ad alimentare la guerra in Siria era il commercio di armi. Tutti gli altri facevano calcoli su come modificare a proprio vantaggio la situazione in Medio Oriente. E adesso, è inutile venire a piangere e a dire che bisogna agire per salvare i «cristiani perseguitati»… Ma che perseguitati! Sono le bombe, che ci perseguitano tutti».

 

A suo giudizio, c’è un modo per aiutare davvero i cristiani? E conviene davvero dare l’idea che l’Occidente si muove per aiutare solo i cristiani?

«Solo il Papa parla di pace. I capi del mondo continuano a discutere: cosa facciamo con questo regime, e cosa facciamo con l’altro regime? Io dico: lasciate che i popoli del Medio Oriente decidano del loro destino. Lasciateli in pace. Tutti i gruppi mercenari e le organizzazioni che hanno portato il terrore e la guerra sono alimentati dall’esterno. I musulmani del Medio Oriente non sono terroristi, non sono fondamentalisti. Li conosciamo. E queste guerre non sono certo guerre tra cristiani e musulmani. Bisogna fermare le guerre, e aiutare i profughi a tornare nelle loro case. Tutti, sia cristiani che musulmani. Per permettere loro di ricominciare a camminare insieme».

Gianni Valente – VaticanInsider

Chiesa cattolica svizzera

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