Mongolia, lo speciale «compleanno» di una giovane Chiesa

È un «compleanno» speciale quello che nel 2017 sta celebrando la giovane Chiesa mongola, piccolo grembo ospitale nel quale trovano riparo quanti aspettano il tocco della tenerezza di Dio. Un compleanno da festeggiare che – nella logica di un esercizio vero della fraternità globale – appartiene a tutto il popolo di Dio. I primi tre missionari, appartenenti alla Congregazione del Cuore Immacolato di Maria, giunsero in Mongolia – dove ancora non si conosceva Gesù – 25 anni fa, nel 1992, su richiesta del governo che aveva appena stabilito relazioni diplomatiche con la Santa Sede dopo l’inverno del regime comunista durato 70 anni.

Oggi, trascorso un quarto di secolo, la Chiesa può contare sull’impegno di 79 persone: il prefetto apostolico, il vescovo Wenceslao Padilla, un prete mongolo (l’unico, ordinato lo scorso anno) e 77 missionari di diverse nazionalità appartenenti a 10 Congregazioni : 26 sacerdoti, 45 suore, un diacono, tre laici missionari e una laica volontaria. In questa terra cinque volte più grande dell’Italia, caratterizzata da rigidissimi inverni (con temperature che raggiungono i 40 gradi sotto zero) vivono tre milioni di persone, in larga maggioranza buddisti: i battezzati sono circa 1.300, le parrocchie sei. Fra i sacerdoti vi è padre Giorgio Marengo, missionario della Consolata, torinese, 43 anni di cui 14 trascorsi in Mongolia: attualmente è parroco a Arvaiheer, un piccolo centro nel cuore della steppa dove i battezzati, anno dopo anno, sono diventati 27. A Vatican Insiderracconta la vita di questa giovane Chiesa.

 

Quali iniziative sono state promosse per festeggiare la presenza in Mongolia da 25 anni?  

«Ne sono state ideate molte, da tutte le Congregazioni. Ne segnalo due fra le più significative: la prima è la celebrazione eucaristica, svoltasi lo scorso 9 luglio nella cattedrale di Ulaanbaatar, alla quale hanno partecipato i fedeli e tutti i religiosi e le religiose presenti nel Paese: è stata l’occasione per ringraziare il Signore delle grazie con le quali sostiene la Sua Chiesa in questo angolo di mondo. In novembre si svolgerà la seconda iniziativa: una assemblea generale alla quale interverranno i rappresentanti delle diverse Congregazioni e anche alcuni fedeli. Si rifletterà insieme sul cammino compiuto, cercando di comprendere in quale direzione ci chiama oggi il Signore».

 

Come descriverebbe le reazioni dei mongoli all’arrivo dei primi missionari cattolici? Lei come è stato accolto?  

«Nei primi anni Novanta del secolo scorso qualunque straniero suscitava reazioni contrastanti che anch’io ho sperimentato al mio arrivo un decennio dopo: grande curiosità e interesse ma anche sospetto e molta diffidenza. Reazioni comprensibili se si tiene conto che per 70 anni la Mongolia è stata governata da un regime comunista che ha imposto l’ateismo di stato e ha costretto il Paese in un rigido isolamento. Con il trascorrere degli anni la diffidenza e il sospetto nei confronti della Chiesa sono progressivamente diminuiti. La popolazione ha compreso le nostre intenzioni, ha capito il nostro desiderio di prenderci cura di tutti, specie dei più deboli e vulnerabili, in modo gratuito e disinteressato. E lo apprezza molto. In questo paese, come anche nel resto dell’Asia, la fiducia della popolazione si conquista lentamente».

 

Quali peculiarità del popolo mongolo la colpiscono maggiormente?  

«Anzitutto la fierezza, che si nota subito. I mongoli sono orgogliosi del proprio glorioso passato imperiale, hanno una identità culturale forte che, anche in epoche turbolente, ha consentito loro di sopravvivere e di non essere schiacciati da altri Paesi. Resto sempre colpito anche dalla loro grande capacità di sopportazione, dal legame con la terra (che ha influenzato la loro visione del mondo) e dallo stile dei rapporti. La cultura mongola è molto sofisticata, direi anche signorile: ad esempio, le relazioni – a qualunque livello – sono governate da un galateo ben preciso, un codice di comportamento che non è mero formalismo ma espressione di valori spirituali profondi, che hanno nel buddismo la loro radice. La tradizione buddista ha infatti plasmato questo popolo, sebbene il cristianesimo non sia estraneo alla storia della Mongolia: esso giunse in quest’area del mondo nella forma nestoriana già prima dell’anno 1000 e vi rimase a lungo. Nel XIII secolo papa Innocenzo IV inviò un suo legato alla corte imperiale, il francescano Giovanni da Pian del Carpine, che redasse un diario nel quale si racconta l’incontro con buddisti, cristiani e musulmani. Quando l’impero cominciò a sfaldarsi la presenza cristiana andò progressivamente scomparendo».

 

Come si articola la presenza della Chiesa in Mongolia? Quali opere sono state avviate?  

«Nel corso degli anni la Chiesa si è anzitutto impegnata in campo sociale, educativo, sanitario, aprendo asili, scuole, ospedali, istituti per disabili, centri di accoglienza, assistenza e promozione umana; si è quindi dedicata all’annuncio, alla catechesi, all’amministrazione dei sacramenti e all’accompagnamento di quanti chiedevano di intraprendere un cammino di fede. La crescita tumultuosa dell’economia, dovuta in larga misura allo sfruttamento delle immense risorse del sottosuolo di cui il paese dispone, ha migliorato le condizioni di vita ma ha determinato anche squilibri e nuove forme di povertà che si sono aggiunte a quelle preesistenti. Gran parte della popolazione vive di allevamento (attualmente vi sono 45 milioni di capi di bestiame), ma negli ultimi anni sempre più persone abbandonano le steppe, vendono gli animali e si trasferiscono nella capitale, alla ricerca di un lavoro stabile e sicuro, che però non è così facile trovare. Sebbene la Mongolia non sia più un Paese in via di sviluppo, c’è povertà, con tutto ciò che essa implica. Noi missionari e missionarie della Consolata, che viviamo nella periferia della capitale e qui a Arvaiheer, siamo impegnati sia in campo educativo, con iniziative di sostegno allo studio, il servizio dopo scuola e un centro diurno pre-scolare (per bimbi tra i 2 e i 5 anni), sia in campo sociale con l’assistenza alle persone più fragili e bisognose e corsi di artigianato destinati alla popolazione femminile. Presto saremo presenti anche nell’antica capitale dell’impero, Karakorum (oggi Kharkhrin), dove ci dedicheremo al dialogo interreligioso e alla ricerca storico-culturale».

 

Fra i religiosi e le religiose appartenenti alle diverse Congregazioni vi è collaborazione?  

«Molta. Nei primi anni era informale, dettata dalle esigenze che via via si presentavano, poi con il trascorrere del tempo si è strutturata: oggi ci incontriamo regolarmente per esaminare insieme i problemi, organizzare meglio le attività che ciascuna Congregazione porta avanti, discernere insieme quali passi compiere.

C’è un’espressione (è di un vescovo indiano) che penso possa ben restituire la natura del nostro impegno: noi missionari abbiamo il compito di «sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia»: dunque anche della Mongolia. L’immagine del sussurro dice di un annuncio ai popoli asiatici – così profondamente diversi da quelli occidentali – fatto con delicatezza, discrezione, rispetto. Del resto il Vangelo non è qualcosa da sbandierare per attirare l’attenzione e sentirsi a posto. Schiamazzare non è evangelico. E il missionario non è un piazzista».

Le parrocchie mongole sono gemellate con comunità cattoliche italiane o di altri Paesi?  

«Sebbene vi siano rapporti con le comunità di origine dei missionari e delle missionarie, sino ad oggi non è nato alcun gemellaggio. Talvolta alcuni gruppi parrocchiali stranieri vengono a visitare le nostre piccole comunità: sono incontri indimenticabili perché le persone, con l’aiuto di un interprete, cominciano a parlare fra loro, a confrontarsi raccontando come vivono la fede, a porsi reciprocamente domande profonde. Quella dei gemellaggi sarebbe una iniziativa molto interessante, che mi farebbe piacere poter realizzare».

 

Quali sono le fatiche e le gioie più grandi sperimentate alla guida delle piccole comunità mongole?  

«La fatica maggiore è imparare a padroneggiare la lingua e conoscere bene questa cultura che, come dicevo, è complessa: ciò richiede anni e molto lavoro. Ma le gioie sono grandi. Poter svolgere il mio ministero in questa terra dove Cristo non è conosciuto è una delle grazie più grandi che ho ricevuto. È commovente vedere lo stupore di uomini e donne che cominciano a conoscere un Dio personale, un Dio che perdona. È commovente constatare l’azione del Signore nei cuori delle persone che si sentono guarite e liberate da molte paure. Accompagnare un popolo che non conosce Cristo, rispondere agli interrogativi (anche molto spiazzanti) che pone su di Lui, sostenere quanti iniziano a seguirlo, impone di andare all’essenziale della propria fede e anche questa, per me, è una grazia. Questo processo verso l’essenziale porta da un lato a cogliere tutta la propria inadeguatezza e a far spazio all’agire del Signore, dall’altro a stare sempre più aggrappati a Lui in favore di tutti e, quando si presentano problemi insormontabili, a vivere con una intensità speciale la preghiera di intercessione».

 

I fedeli sentono la vicinanza e il sostegno di tutta la Chiesa?  

«In un Paese a maggioranza buddista nel quale essere cristiani può comportare qualche sottile forma di discriminazione, i fedeli si sentono un piccolo gregge, ma sanno che il legame con la Chiesa esiste ed è saldo. Riescono a percepirlo proprio quando incontrano fedeli di altri Paesi oppure quando ascoltano l’Angelus del Papa, che noi trasmettiamo e traduciamo. Alcuni giovani hanno partecipato alle Giornate Mondiali della Gioventù: è stata un’esperienza molto importante per loro anche se, abituati a vivere in un paese scarsamente popolato, sono rimasti un po’ scioccati dalle folle oceaniche».

 

Cosa pensa che la giovane Chiesa mongola stia portando in dono alla Chiesa tutta?  

«Direi una sorta di freschezza delle origini, la bellezza semplice e la letizia di uomini donne e bambini che hanno scoperto Gesù da pochi anni e cominciano a camminare dietro a Lui. La Chiesa è nata per evangelizzare, per portare il lieto annuncio a tutti gli uomini: probabilmente nei Paesi di antica tradizione cristiana questa dimensione è meno visibile o è data per scontata. Qui, invece, tale dimensione risplende, mostrando che questa è, e continua ad essere, la missione della Chiesa. Allo stesso tempo penso che la Chiesa riceva in dono la ricchezza del patrimonio culturale mongolo e nuovi occhi con i quali contemplare il Signore. La storia del cristianesimo è la storia dell’annuncio ma anche dello sguardo offerto dai popoli man mano raggiunti dal messaggio di salvezza».

 

E questa piccola Chiesa mongola cosa sta ricevendo in dono dalla Chiesa?  

«Il sostegno, la consapevolezza del legame che ci unisce alle tutte le comunità cristiane del mondo e la conferma della nostra fede. Porto un esempio: volevamo tradurre il messale romano completo in lingua mongola e lo abbiamo potuto fare grazie al decisivo aiuto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti: per anni abbiamo lavorato insieme e nel 2016 il testo ha ricevuto l’approvazione della Santa Sede. Non abbiamo vissuto questa approvazione come un atto formale: essa ha realmente fatto sentire le nostre comunità in comunione con tutta la Chiesa, ci ha fatto sentire sotto lo sguardo del successore di Pietro che conferma nella fede».

Cristina Uguccioni – VaticanInsider

Chiesa cattolica svizzera

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