La vicenda umana e intellettuale di Ernesto Buonaiuti – Pellegrino di Roma

2017-03-04 L’Osservatore Romano
Un anziano frate agostiniano, all’epoca già più che ottuagenario, mi si avvicinò un giorno a Latina — dove dimorò per un ventennio prima di spegnersi nel convento di Genazzano — porgendomi una busta: «La lascio a te — mi disse — perché so che è in buone mani». La busta, per la verità, portava già i segni del tempo, cosa che m’incuriosì: vi trovai dentro il ricordino della prima messa di Ernesto Buonaiuti, forse un unicum ormai, che il buon padre Lucio Fabbroni, mite e saggio, aveva a sua volta ricevuto in dono non ricordo più da chi.

Ernesto Buonaiuti

In alto, l’immagine del Cristo sembra quasi poggiare sulla scritta «Redemtor (sic) noster aspice Deus»; in basso, l’altare sul quale, tra candidi gigli, sono posati il libro (vi si legge il verso del salmo 115: «Calicem salutaris accipiam et nomen Domini invocabo!»), la stola, il calice. Sul retro la scritta: «Nella santa letizia di questo giorno / 20 dicembre 1903 / con ardenti voti desiderato / Don Ernesto Buonaiuti / salendo per la prima volta l’altare / nel tempio di San Filippo Neri / in Roma / la madre i parenti gli amici / a Gesù dolcissimo raccomanda / per se [sic] lo prega / perché sempre meno indegno rendendosi / dell’altissimo divino favore / torna (sic; una mano ha corretto a penna: «torni») a bene di molti / il suo sacerdozio / S. C.».
Buonaiuti, che nel 1903 — come ricorderà egli stesso nella propria autobiografia, Pellegrino di Roma — aveva cominciato a insegnare filosofia «nelle scuole di Propaganda Fide» e «a tenere lezioni di storia dei dogmi nelle scuole dell’Apollinare» dov’era succeduto a Umberto Benigni, ormai vicino al suo trapasso ricorderà quel momento tanto importante della sua vita sacerdotale con ancora palpabile emozione: «Fu giornata — scrisse — di inenarrabile ed indelebile trepidazione interiore. Tutta la mia preparazione intellettuale, tutta la complessa macerazione delle mie esperienze, dalle aspre durezze della mia adolescenza, al paziente e silenzioso tirocinio seminaristico, alle ultime sorprendenti acquisizioni della cultura e della conoscenza del mondo nell’ultimo biennio, sembravano traboccare in una consapevolezza mistica e tagliente del grande compito del sacerdozio, in un mondo che, sotto le forme di un ordinamento saldo e normale, nascondeva già elementi di inquietudine e di sconvolgimento, che non avrebbero tardato molto a fruttificare».Il documento è interessante anche perché consente di chiarire un dubbio relativo alla cronologia di quei giorni, insinuato da Mario Niccoli, cui si deve un’ottima edizione del testo autobiografico. Buonaiuti, infatti, scrisse correttamente: «Il cardinal Respighi, successo al Parocchi nel Vicariato di Roma, mi consacrava sacerdote il 19 dicembre del 1903 nella Basilica Lateranense, e il giorno successivo io celebravo la mia prima messa nella cappella di San Filippo, alla Chiesa Nuova». Niccoli, tuttavia, nutrì qualche perplessità su quel «giorno successivo», scrivendo in nota: «Mi pare di ricordare che la data della prima messa di Buonaiuti sia il 21 e non il 20 dicembre. Almeno così egli diceva». Ora il documento trasmessomi da padre Lucio Fabbroni chiude la questione.
Ernesto Buonaiuti, più tardi colpito da ripetuti provvedimenti disciplinari fino alla scomunica maggiore, era nato nel quartiere romano di Ripetta; rimasto, ancora fanciullo, orfano del padre, entrò in seminario a quattordici anni. Dotato di straordinario ingegno, lettore onnivoro e insaziabile (in Pellegrino di Roma rivelerà di aver letto il De Germania di Tacito scendendo e salendo gli scaloni dell’Apollinare, incolonnato in fila silenziosa con gli altri seminaristi), dimostrò sempre una «innata tendenza — come scrisse Raffaello Morghen, il quale ben lo conobbe e intensamente l’amò — a posizioni di pensiero arrischiate e sottili». È incredibile la quantità di saggi e discussioni a cui ha dato adito la triste vicenda di quest’uomo che lo stesso Morghen qualificò come «un isolato». E tale, di fatto, egli fu, anche all’interno di quel variegato gruppo modernista che certo non costituì un blocco compatto, al pari, peraltro, di quella parte del mondo ecclesiastico che non ne condivise mai le idee e che, in taluni casi, vi si oppose aspramente: nulla avevano ad esempio in comune personaggi del calibro di Enrico Rosa, gesuita scrittore e poi direttore de La Civiltà Cattolica, con figure anche squallide quali Alberto Cavallanti o i fratelli Scotton, e del tutto diverso dall’uno e dagli altri fu il più giovane Giuseppe De Luca, che pure con Buonaiuti ebbe rapporti anche molto tesi.

Certamente, secondo quanto riconobbe ancora Morghen, «egli andò qualche volta oltre il segno, e perse il senso della misura e il controllo della sua penna». È il caso del famoso convegno dell’estate 1907 a Molveno, dove nel fresco delle Dolomiti si radunarono in gran segreto alla presenza del barone Friedrich von Hügel e di letterati come Antonio Fogazzaro, gli esponenti di maggior spicco del «modernismo» italiano. «Per parecchi giorni, mattina e sera, noi ci trovammo riuniti all’ombra degli abeti e dei larici — così ricordava Buonaiuti quasi quarant’anni più tardi — a ragionare di quei problemi di critica neo testamentaria e di storia dei dogmi, su cui ci sembrava dovesse convergere ormai più imperiosamente tutta la polemica religiosa». Benché riluttante a parlare, Buonaiuti prese tuttavia la parola nella «discussione animatissima» «sulla celebrazione dell’agape cristiana e le origini della liturgia eucaristica».

Chiesa cattolica svizzera

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