Visitare, gesto umano e divino

Il visitare non comporta solo il gesto dell’uscire, del camminare e dell’entrare, di cui Maria è espressione. È necessario anche accogliere, come fa Elisabetta: scelta impegnativa e faticosa. Accogliere corpi che invadono lo spazio intimo della casa. E con essi, le storie di cui sono portatori. Visitare è più leggero di abitare. Almeno in apparenza. Non ha la pretesa di legare per la vita, di imporre una presenza per un tempo prolungato. La visita ha un tempo prestabilito. Inizia e finisce. Per una cultura militante, che si nutre di scelte radicali, il visitare, rispetto all’abitare, al dimorare, può suonare come un passo indietro, il rimando a un’appartenenza parziale, post-moderna, ovvero incapace di totalità.

Al di là del tono nostalgico di una siffatta obiezione, la critica ha una sua pertinenza. Conosciamo tutti la tentazione del non coinvolgimento, del credere «fino a un certo punto» che, come ha mostrato Kierkegaard, equivale al sottrarsi all’esperienza della fede. Eppure, i conti vanno fatti a partita doppia, denunciando le perdite ma, insieme, non tacendo i vantaggi. Di questo sguardo dialettico, anticorpo alla semplificazione, è maestra la narrazione biblica, non a caso plurale e portatrice di tensioni da mantenere, più che di idee a tinta unica. E così, proprio il portale d’ingresso al racconto di un Dio che si fa carne, che viene ad abitare la storia, mette in scena il gesto della visitazione.

Se una lettura che contrappone l’Antico e il Nuovo Testamento rischia di opporre le visite che Dio ha compiuto lungo la storia della salvezza, da Abramo a Giovanni il Battista, al dimorare stabile nel Figlio, nel tempo del compimento, un’interpretazione più attenta a rendere ragione dell’agire multiforme di Dio, differente dal gesto prevedibile e immediatamente comprensibile dell’idolo, saprà cogliere il senso del visitare anche nella pienezza dei tempi, quando la Parola fatta carne «ha posto la sua tenda tra di noi»: tenda, appunto, rimando a quell’abitare nomade, a quel soggiornare temporaneo, al dimorare inquieto di un Dio che si avvicina ma non si lascia possedere, che visita sottraendosi.

Detto diversamente: il gesto del visitare ha una portata teologica che ci impedisce di rubricarlo sotto la voce di atti di cortesia o di denigrarlo come scelta rinunciataria, per chi proprio non se la sente di fare il grande passo. Posto fin da subito l’asse verticale (teologico) del visitare, ancora una parola per esprimere l’asse orizzontale (antropologico), prima di entrare nel testo. La leggerezza della visita è portatrice di quel rispetto che non vuole riempire lo spazio dell’altro. Una folgorante battuta di Lacan esprime bene la questione: «Se lei si mette nei panni dell’altro, l’altro dove si mette?».

In fondo, in entrambe le relazioni — quella con Dio e quella con gli esseri umani — la sfida del gesto del visitare è tutta inscritta nell’etimologia del verbo. Forma intensiva di vedere, la visita pone la questione di un volgersi che incontri altri volti, di un vedere che colga visi e non oggetti privi di alterità. Volti che sperimentano il movimento del volgersi gli uni verso gli altri, senza assorbirsi; visi che vedono e si lasciano vedere, senza mangiarsi con gli occhi! Proprio di questo ci parla il racconto lucano della visitazione.

(Lidia Maggi/SperarePerTutti)

21 Dicembre 2016 | 06:00
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