Una serata con Mario Botta per scoprire il rapporto tra il sacro e l'opera d'arte

Lo definisce la «centralità» del suo operare: Mario Botta da 30 anni, oltre a innumerevoli altri edifici, costruisce anche chiese ed edifici sacri, tra cui sinagoghe e moschee. Attualmente, tra edifici sacri già costruiti o ancora in costruzione, se ne contano 22, in tutte le regioni del mondo, «a dimostrazione della varietà delle interpretazioni possibili anche del sacro», sottolinea il noto architetto.

Un’attività che non lo lascia indifferente, perché «dietro ogni progetto simile si sente un mistero che si realizza», come ammette con rinnovata stupefazione durante la relazione tenuta lunedì scorso, 7 ottobre, al Centro culturale Alzavola di Lugano.

L’architettura – spiega – è la pianificazione dello spazio di vita dell’uomo, «una vastissima e difficilissima attività», perché a scegliere il progetto non è l’architetto, ma il committente. E allora come fare quando chiedono che venga costruita una chiesa? «Ci terrei a sottolineare che l’architettura è nell’insieme un atto sacro: trasforma la natura, la terra vergine, in qualcosa di culturale, che esprime lo spirito dell’uomo. L’architetto ha per le mani una struttura che deve parlare di altri valori». «Costruire una chiesa – incalza però Botta – richiede di intercettare diverse esigenze, prima tra tutte quella di creare un legame solido tra l’altare, su cui si svolge il sacrificio di Cristo, e la collettività. Il culto è un fatto collettivo. Inoltre, quando le costruisci devi sapere che sei dentro un territorio di memoria, una stratificazione storica, che viene in sostegno di quello che, come architetto, ti sembra essere un gesto nuovo. La vera domanda allora è: come interpretare questa storia che ci ha preceduti? Come fare sì che una grande memoria storica arrivi a noi e ci permetta al contempo di fare cose nuove?».

Nella chiesa del Santo Volto a Torino, Mario Botta insieme ai suoi collaboratori è riuscito a ricostruire il santo volto della Sindone attraverso una sapiente tessitura delle pietre. Alcuni mattoncini in «rosso di Verona» sono stati infatti lavorati  con due forme diverse e montati in modo da mostrare un cuneo per creare una zona d’ombra oppure un lato piano per riflettere la luce.

Una domanda alla quale Botta ha trovato con il tempo risposta, passando dalla cappella del Convento del Bigorio, realizzata nel 1966, una delle sue prime creazioni, dove, per sua stessa ammissione, l’architetto ha fatto «un lavoro molto radicale»: voleva restasse «un segno del nostro tempo». Poi la nota chiesa di Mogno, in Vallemaggia, con la quale Botta non ha voluto solo ricostruire una tipologia esistente, ma far sì che entro la geometria architettonica emergesse il fatto della valanga, quindi una pianta della struttura appositamente pensata affinché, «se si verificasse una nuova valanga, riuscirebbe a girarci attorno, senza toccare la struttura». E si diverte Mario Botta, a enucleare anche i tanti aspetti che studiosi dopo di lui hanno rilevato nella sua costruzione, come chi che crede di aver individuato una serie di elementi simbolici e una numerologia dietro la chiesa di Mogno; «cose a cui io stesso non avevo pensato», sorride Botta, stupito da quanto possa emergere anche a sua insaputa dalle sue opere. «Lo scarto tra quello che si fa e quello che si potrebbe fare rimane enorme», commenta, alludendo alle potenzialità insite in un progetto architettonico ambizioso come una chiesa. Ma Botta ama soprattutto il rapporto diretto tra terra e cielo, la luce che genera nuovo spazio, l’architettura che interagisce con l’elemento naturale, modificandolo. È il caso della chiesa del Monte Tamaro, meta di pellegrinaggio della Diocesi, che veglia sul Piano di Magadino, costruita appositamente per essere «un’interpretazione  stessa della montagna su cui poggia», con un campanile che è «un piano orizzontale», spiega Botta, «per contrastare le leggi della montagna, che invece ci presentano solo territori scoscesi». Poi dal pubblico arriva una domanda: perché, per l’interno della chiesa, la scelta è ricaduta sul colore nero? «Una scelta disperata», ironizza Botta. «Per un architetto è difficilissimo scegliere il colore degli interni quando hai costruito una struttura architettonica già molto eloquente. Avevo bisogno del nero che è un colore che non crea spazio, ma lo nega, perché l’architettura della chiesa, nella sua complessità, dice già molto».

Ma la parte più interessante del racconto arriva quando Botta spiega come sono nate opere pensate anche per altre confessioni religiose, come la sinagoga per l’università di Tel Aviv, che gli richiese anzitutto un lavoro di mediazione interculturale non indifferente. Una costruzione che il corpo docenti aveva accettato a stento, cedendo alle richieste degli studenti. «Essendo un’università che si riconosce nei valori laici, temevano che la sinagoga diventasse centro di sviluppo di qualche pensiero estremista», spiega. E allora il colpo di genio: Botta costruisce, accanto alla sinagoga stessa, un analogo edificio, adibendolo però a sala conferenze. Tutti contenti: lo spazio per la preghiera era diventato, spiega Botta, anche spazio per la riflessione.

La sinagoga e la «sala conferenze» di Tel Aviv, nel campus universitario.

Da ultimo, commuove quasi la storia di una delle ultime opere di Botta, ancora in costruzione: una monumentale chiesa in Corea del Sud, il cui progetto è sorto grazie all’unica volontà di un solo sacerdote, che in 30 anni si è impegnato a comperare il terreno necessario – molto esteso – e poi a raccogliere la somma di 10 milioni, coinvolgendo 30’000 famiglie, in quello che promette di essere un progetto splendido. Dietro ogni edificio sacro una storia e, per questo, conclude Botta, ogni nuova chiesa costruita «è una grazia».

Vedi anche: Mario Botta. Oltre lo spazio

Laura Quadri

9 Ottobre 2019 | 11:40
Tempo di lettura: ca. 3 min.
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