Una docente vicina all’Opus Dei sulla Lettera pastorale: «Santi a partire dal cuore»

«Ripartire dal cuore»: per Anna Brianza, madre di due figli e docente di italiano e latino all’Istituto Elvetico di Lugano, l’appello di mons. Lazzeri suona forte e chiaro. Con lei abbiamo chiacchierato della lettera pastorale e del suo significato.

Anna, come interpreti il titolo della Lettera, «ripartire dal cuore»?

Mi sembra molto indovinato, poiché focalizza l’attenzione sull’aspetto centrale del nostro essere persona e cristiani, sul luogo del nostro incontro con Dio. Un ambito questo che non è scalfito o condizionato nemmeno da un’emergenza come quella prodotta dal Covid. Anzi, proprio la forzata diminuzione delle attività sociali, favorisce l’interiorizzazione, l’ascolto, il dialogo con Dio …

Leggendo la Lettera, c’è qualcosa che ti ha subito colpito e che tocca le tue «corde» di credente?

Mi ha colpito l’ottimismo cristiano che impregna tutta la lettera, ma che si manifesta soprattutto nel paragrafo dedicato ai «laboratori di speranza». Ognuno di noi è chiamato ad essere uno di questi «mini laboratori» di speranza e, ricco della vita della Trinità in lui, ad essere nel mondo testimone dell’Amore, attento alle necessità, soprattutto spirituali, dei fratelli. Il Signore continua a dirci: «Non temete!». «Egli ha sempre le mani nella pasta di questa nostra storia accidentata e complessa e non cessa mai di volerne fare una storia di salvezza». Mi è piaciuto anche molto l’invito a percepire l’appello che il Signore ci sta rivolgendo nelle circostanze storiche che stiamo vivendo, evitando di considerare questo tempo solo come un’interruzione temporanea dei progetti in corso, in attesa di riprenderli quando tutto sarà passato.

Il vescovo afferma che «la pandemia ci ha lasciato una sfida». Come è da intendere tale sfida? Di che sfida si tratta esattamente?

La pandemia, costringendoci a rientrare in noi stessi, ci ha sicuramente sfidato prima a riconoscerci figli bisognosi, fragili e non autosufficienti, ma comunque pur sempre figli di un Padre Buono e di conseguenza ha lasciato spunti preziosi, inducendoci a diventare più umili, ad affidarci al Signore con «la pazienza fiduciosa di cui ci parlano tante volte gli scritti del Nuovo Testamento, la sottomissione attiva alle circostanze reali in cui il Signore ci chiama ad attendere la Sua venuta ogni giorno». L’invito che ora dobbiamo cogliere è quello di «reagire al generico grigiore, al gelo, alla tristezza e alla cattiveria amara, che rischiano di invadere le nostre vite che in questo momento si sentono ancora più deboli e vulnerabili» e invece «seminare comprensione e benevolenza, laddove tende a prevalere l’esasperazione per le cose che non sembrano voler cambiare».

Secondo mons. Lazzeri, inoltre, bisogna ripartire «non dall’inventare o suscitare ciò che non esiste ancora, ma dall’aprire le strade a ciò che c’è già». Come state «ripartendo» dopo i mesi di lockdown trascorsi, a livello di Opus Dei?

Cerchiamo, come suggerisce il vescovo, ciò che c’è già ma che, presi dalle tante occupazioni e quindi da un certo attivismo, forse avevamo un po’ trascurato. Mi riferisco alla vita di preghiera, all’incontro con Gesù nei sacramenti, alla meditazione della Parola di Dio. A questo proposito mi sembra suggestivo quanto il vescovo scrive sulla mistagogia come introduzione al mistero di Cristo, «armonizzando tra loro catechesi, liturgia e vita».

È nei desideri del vescovo che i credenti riscoprano «non una fede celebrata, ma una fede vissuta». Come intendi questo appello riguardo alla tua vita personale?

La fede certo va celebrata, i riti ci vogliono, ma questi non devono essere avulsi della vita quotidiana. Tra la fede e la nostra quotidianità ci deve essere una profonda connessione, direi come quando un fiume si getta nel mare e le acque dell’uno confluiscono nell’altro. San Josemaría nella sua omelia «Vita di fede», che si può leggere nel libro Amici di Dio, ricorda che «la fede non è soltanto da predicare, ma soprattutto da praticare», che essa non consiste nella chiarezza con cui la esponiamo, ma nel modo in cui la viviamo». Questo santo dell’ordinario, come lo ha definito san Giovanni Paolo II, in modo semplice e suggestivo dice a ciascuno di noi: «Lì dove sono le vostre aspirazioni, il vostro lavoro, lì dove si riversa il vostro amore… quello è il posto del vostro quotidiano incontro con Cristo». Così la nostra sarà «fede vissuta» e la preghiera, come scrive il vescovo, non sarà una pratica esteriore, ma diverrà un’avventura spirituale da alimentare adeguatamente e realmente, di cui ciascuno è in prima persona responsabile.

Laura Quadri

7 Ottobre 2020 | 06:02
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