Chiesa

Un secolo di lotta agli abusi nella Chiesa, da Benedetto XV a Francesco

Nell’ultimo numero del quindicinale dei dehoniani Il Regno viene analizzata l’inveterata mancanza di una strategia generale contro «la pedofilia, gli abusi e le violenze sessuali praticati da ecclesiastici su giovani e giovanissimi». La linea della tolleranza zero avviata nell’ultimo quinquennio del pontificato di Giovanni Paolo II come risposta allo scandalo esploso negli Stati Uniti a partire dalla diocesi di Boston andava a colmare parzialmente decenni di incuria o sottovalutazione del fenomeno nel governo centrale della Chiesa cattolica.

In parte ciò era dovuto anche alla cautela con cui Karol Wojtyla, figlio della Chiesa del silenzio della Guerra Fredda, accoglieva le accuse a sacerdoti sospettati di abusi perché nell’Europa orientale oppressa dalla dittatura comunista far circolare strumentalmente voci di molestie compiuta da un religioso scomodo era un modo per metterlo fuori gioco ed estrometterlo di fatto dalla vita pubblica inficiando la sua credibilità personale. Inoltre Karol Wojtyla aveva una concezione talmente alta e mistica del sacerdozio che gli risultava difficile concepire che un ministro di Dio potesse macchiarsi di simili abomini.

Però, poi, nel 2001 è proprio Giovanni Paolo II, mediante il motu proprio Sacramentorum Sanctitatis, ad assegnare l’investigazione sugli abusi alla congregazione per la dottrina della fede, sottraendola a quella per il clero.Poi nel 2002 è l’istruzione De delictis gravioribus a fissare la procedura per affrontare le situazioni di abusi sessuali, colmando il vuoto di segnalazioni a Roma da parte di vescovi diocesani che per decenni, in molti casi, hanno trasferito i preti pedofili invece di punirli. 

Dal punto di vista degli strumenti giuridici a disposizione della giustizia ecclesiastica, l’abuso sessuale di un minore da parte un chierico rientra per la Chiesa tra i «delicta graviora» la cui ridefinizione in epoca moderna risale a Benedetto XV, con il nuovo Codice di Diritto Canonico promulgato nel 1917. Durante gli otto anni di pontificato di Benedetto XV, infatti, alcuni crimini finiscono sotto la competenza del Sant’Uffizio che poi nel 1922, attraverso l’istruzione Crimen Sollicitationis, stabilisce le istruzioni destinate alle diocesi e ai tribunali diocesani. L’obiettivo era quello di unificare le condotte e definire regole e procedure di fronte ai crimini commessi dai sacerdoti dei quali si dimostrava il comportamento omosessuale, l’abuso sessuale su minori e la strumentalizzazione della confessione per molestare il penitente.

La svolta successiva si realizza all’epoca del Concilio Vaticano II, durante il pontificato di Giovanni XXIII quando dal governo centrale della Chiesa si decentrano le responsabilità di vigilanza e di sanzione in direzione dei vescovi diocesani. Sono i titolari delle Chiese locali a dover valutare i casi di abusi e il processo canonico viene in qualche modo compartecipato: periferie e centro devono cooperare secondo un’impostazione maggiormente pastorale. Nonostante l’approccio fosse quello di decentrare secondo lo spirito conciliare per rendere maggiormente partecipi i vescovi locali, l’effetto involontario è stato anche quello di creare delle mancanze e delle falle nel sistema provocando coperture, sottovalutazione del fenomeno, mancata emersione di molti casi nel tentativo maldestro e controproducente di non far esplodere scandali nel proprio territorio di competenza.

E questa linea d’azione uscita dal Concilio è stata ribadita anche nella revisione del Codice di Diritto Canonico avvenuta nel 1983 che, per espressa disposizione del canone 1395, colloca a livello diocesano i processi per abusi rendendo di fatto complicato per la Santa Sede ridurre allo stato laicale i preti che hanno compiuto abusi. E anche la costituzione apostolica Pastor Bonus del 1988 contribuisce a non colmare le falle nel sistema anti-abusi evitando di elencare precisamente i crimini che ricadono sotto la giurisdizione della Congregazione per la Dottrina della Fede e lasciando ai vescovi diocesani il compito di mettere sotto accusa i preti abusatori.

A questo perdurante errore di impostazione fa riferimento Benedetto XVI nella sua Lettera pastorale del 2010 alla Chiesa irlandese, scossa da decine di vicende legate alla pedofilia nel clero e negli ordini religiosi. «Il programma di rinnovamento proposto dal Concilio Vaticano II fu a volte frainteso e, alla luce dei profondi cambiamenti sociali che si stavano verificando, era tutt’altro che facile valutare il modo migliore per portarlo avanti. Vi fu una tendenza, dettata da retta intenzione ma errata, ad evitare approcci penali nei confronti di situazioni canoniche irregolari», analizza Papa Ratzinger. «È in questo contesto generale che dobbiamo cercare di comprendere lo sconcertante problema dell’abuso sessuale dei ragazzi, che ha contribuito in misura tutt’altro che piccola all’indebolimento della fede e alla perdita del rispetto per la Chiesa e per i suoi insegnamenti».

Già da prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede, Joseph Ratzinger aveva delineato la linea di fermezza che, una volta eletto al Soglio di Pietro, lo ha portato a ridurre allo stato laicale centinaia di sacerdoti che si erano macchiati della gravissima colpa di aver molestato o abusato di minori. Dai primi anni Sessanta all’inizio del Duemila in pratica ad essere sanzionati secondo le norme dell’istruzione Crimen Sollecitationis erano stati quasi esclusivamente i preti che avevano approfittato del sacramento della confessione per compiere abusi sui penitenti. In pratica al Sant’Uffizio i procedimenti aperti in quei quarant’anni erano stati poche decine.

Fin dall’inizio del suo pontificato Francesco ha attuato una strategia di tolleranza zero anti-abusi istituendo la Pontificia Commissione per la Protezione dei minori, includendo tra i membri due persone vittime in passato di preti pedofili. Nel 2015 Jorge Mario Bergoglio accoglie l’abbandono degli obblighi ecclesiali da parte del cardinale scozzese Keith O’Brien accusato di comportamento sessuale inappropriato nei confronti di tre sacerdoti e messo sotto inchiesta per questo dall’inviato speciale del Papa, Charles Scicluna.

Nello stesso periodo Francesco dispone gli arresti domiciliari e il processo penale in Vaticano per l’arcivescovo Jozef Wesolowski, ex nunzio in Repubblica Dominicana accusato di aver pagato per fare del sesso con dei minori e per possesso di materiale pedopornografico.

Per primo in Vaticano Francesco ha incontrato il 27 settembre 2015 alcune vittime di preti pedofili, proseguendo la linea di confronto e giustizia definita nel succedersi dei pontificati. Nella lettera apostolica Come una madre amorevole del 4 giugno 2016, Bergoglio chiarisce che tra le cause gravi che possono concorrere alla rimozione dall’ufficio ecclesiastico è compresa la negligenza dei vescovi «in particolare relativamente ai casi di abusi sessuali compiuti su minori ed adulti vulnerabili», poi nella Lettera al Popolo di Dio del 20 agosto 2018 evidenzia che è «imprescindibile che come Chiesa possiamo riconoscere e condannare con dolore e vergogna le atrocità commesse da persone consacrate, chierici, e anche da tutti coloro che avevano la missione di vigilare e proteggere i più vulnerabili».

All’inizio dello scorso mese di giugno, inoltre, si sono svolti gli incontri del Pontefice con le vittime di padre Fernando Karadima, l’abusatore seriale al centro dello scandalo che ha screditato la Chiesa cilena, il cui episcopato cinque mesi fa ha presentato in blocco le sue dimissioni, evento mai accaduto nella storia. Dalla fine di luglio, infine, per decisione di Francesco l’arcivescovo emerito di Washington Theodore McCarrick non è più cardinale. In seguito alle accuse di abusi sessuali, il Papa ha disposto la sospensione dall’esercizio di qualsiasi ministero pubblico, insieme all’obbligo di una vita di preghiera e di penitenza.

(Vatican Insider)

2 Novembre 2018 | 06:30
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